Recensione di libri:Il portone di San FrancescoFra la molta e qualificata letteratura che prende in considerazione gli ebrei, il loro mondo e i loro problemi, dopo il romanzo di Giorgio Bassani Il giardino dei finzi contini che vide la luce a Torino nel 1962, Il portone di S. Francesco di Vannina Finzi Pellegrini, la Pilotta editrice (Parma 1995), è indubbiamente un'altra opera di grande valore letterario e umano. Leggi razziali, regime fascista, persecuzione nazista a Ferrara, città con ghetto e a Parma, dove non esistette mai un quartiere ebraico chiuso. Il paragone mi pare opportuno perché Vannina Finzi Pellegrini ha una prosa quanto mai autorevole e il suo romanzo, anche se di minor mole e di struttura più semplice, si avvicina a quelle qualità artistiche che ottennero il meritato successo di pubblico e di critica di Il giardino. Il protagonista del romanzo è, da quanto è facilmente intuibile da tutto il contesto e dalla interessante corrispondenza pubblicata in appendice, il padre di lei: personaggio reale e da sempre presente nella mente della scrittrice. Ora, a distanza di più di cinquant'anni dai fatti, una figura decantata di ogni superfluo e purgata dalla zavorra che avrebbe potuto danneggiare l'economia del racconto o, comunque, appesantire la narrazione. La prosa poi si mantiene sempre ad un buon livello, costantemente intrisa di un malinconico lirismo e in uno stile garbatamente classicheggiante. Il Sig. Finzi il 23 settembre del 1943 percorreva via Farini (a Parma) per andare dall'orefice Alfonsi. Per strada avviene l'arresto. Poi il carcere di S. Francesco - il portone è appunto quello del carcere - il trasferimento al castello di Scipione, la permanenza colà, la liberazione. La vicenda, se si vuole, è esile e la fabula senza particolari intrecci; non scene violente o imprevedibili; non atti di eroismo o di spietata crudeltà: docili sono i prigionieri, miti e dal volto umano i carcerieri. Un comun denominatore che tiene tutti uniti, è la miseria di un paese dilaniato ed affamato. Dalla lettura di quelle pacate pagine emerge però e si evidenze tutta la drammaticità di una situazione - e di infinite altre analoghe - che si viene a creare con un'ingiuria alla legge e allo stato di diritto. Il personaggio, l'uomo che amava andare in bicicletta, lo sposo felice, il padre responsabile e coscienzioso che ama con un amore fattivo (e in questo amore è abbondantemente ricambiato) è figura ben congegnata e riuscita. Mentre la morte suggella l'altra storia, quella ferrarese, in questa, più corta, di pochi mesi fra autunno e inverno e di grande sobrietà, c'è un lieto fine: la liberazione, il ritorno a casa. Il protagonista, nonostante molte prove, invecchiato e ammalato torna alla vita familiare. Non hai più desideri, non hai più progetti. C'erano però ancora gli affetti e la speranza cominciava, a poco a poco a sciogliere il ghiaccio che s'era formato dentro. Attraverso i ricordi, introdotti da Vannina Finzi Pellegrini con arte e sapienti espedienti di narratrice, l'orizzonte si amplia da quegli angusti luoghi e da quei freddi mesi nei siti e nelle dimensioni temporali di un'intera vita, con affetto e sofferenza: in quell'atmosfera di composto pathos che è la caratteristica dominante e di maggior pregio di tutta la storia narrata. |