4.2. La liberta' religiosa ed il connesso diritto di propaganda. La tutela penale del sentimento religioso.Dopo il necessario richiamo all'intesa del 1987 (art. 1), la legge 101/1989, nei primi tre commi dell'art. 2, riconosce nel modo piu' ampio il diritto di professare la religione ebraica, declinando il diritto di liberta' religiosa anche sotto il profilo delle liberta' di propaganda, di riunione e manifestazione del pensiero, e di comunicazione: infatti, se il primo comma ("In conformita' ai princi'pi della Costituzione, e' riconosciuto il diritto di professare e praticare liberamente la religione ebraica in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto e i riti") riecheggia ampiamente l'art. 19 della Costituzione1, il secondo comma - che garantisce "agli ebrei, alle loro associazioni e organizzazioni, alle Comunita' ebraiche e all'Unione delle Comunita' ebraiche la piena liberta' di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola e lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione" -, riprende da vicino il primo comma dell'art. 21 della Carta, in una visione che, come e' stato affermato, "non e' solo religiosa, ma e' anche sociale ed etnica"2, mentre gli atti relativi al magistero spirituale dei rabbini, insieme alla "affissione e la distribuzione di pubblicazioni e stampati di carattere religioso all'interno e all'ingresso dei luoghi di culto nonche' delle sedi delle Comunita' e dell'Unione e le raccolte di fondi ivi eseguite", vengono dichiarati come "liberi e non soggetti ad oneri" dal terzo comma dello stesso art. 2. e' ferma convinzione della maggior parte della dottrina che la tematica delle liberta' individuali e collettive non possa formare oggetto della contrattazione tra lo Stato e le confessioni religiose, e che, di conseguenza, non possa entrare a far parte del corpus normativo pattizio, in forza della considerazione secondo la quale i diritti di liberta' sono tutelati, nella Costituzione, da norme a carattere inderogabile3. Ma e' stato giustamente replicato che una simile impostazione della quaestio, pur se ineccepibile in linea astratta, va ulteriormente precisata ed affinata, anche perche' sia il nuovo Concordato, che le intese finora concluse - e quella con gli ebrei non fa eccezione -, sembrano smentirla inequivocabilmente, laddove contengono molteplici disposizioni che attengono direttamente alla liberta' religiosa, a fianco di altre tese a favorire un piu' congruo esercizio dei diritti di liberta' dei cives-fideles, sia uti singuli, che in forma associata4. Avvicinando lo sguardo, ci possiamo facilmente rendere conto che la reiterazione di norme e princi'pi gia' garantiti in via costituzionale costituisce un fenomeno niente affatto peculiare al nostro ordinamento, dal momento che e' riscontrabile, in diverse forme, in tutti gli ordinamenti occidentali degli ultimi decenni5, e rappresenta, secondo alcuni stuD-osi, il frutto della tendenza a ribadire continuamente le diverse istanze di liberta', come se la reiterazione delle stesse potesse dotarle, in qualche maniera, di una sorta di superiore intangibilita'6. Specialmente nel nostro Paese, poi, il fenomeno non puo' destare stupore, sol che si pensi alla prolungata inattuazione del dettato costituzionale in tema di liberta' religiosa. Per quel che riguarda piu' specificamente l'intesa ebraica, considerando globalmente i primi tre commi dell'art. 2 della legge 101/1989 con riferimento ai diritti di liberta' individuale, se e' vero che historia magistra vitae, si spiega a sufficienza l'importanza che a queste norme e' stata data da parte dell'Unione delle comunita', dal momento che proprio gli ebrei hanno potuto fare un'amara esperienza del fallimento, nel passato, della garanzia puramente individuale dei diritti del singolo, cosi' che e' parso naturale un "rafforzamento" di questa garanzia anche all'interno dello strumento pattizio7. Questa puo' essere una prima prospettiva sotto cui leggere i primi tre commi dell'art. 2 della legge 101/1989, una prospettiva che diventa sempre piu' plausibile, se si procede al confronto del terzo comma dello stesso articolo con le analoghe disposizioni delle altre intese finora sottoscritte8, che, mutatis mutandis, ripetono il divieto di assoggettare ad autorizzazione le attivita' di affissione e di diffusione di pubblicazioni e stampati a carattere religioso: infatti, sembra logico che, nello stipulare le intese, tutte le confessioni abbiano insistito per una conferma esplicita del divieto di assoggettare ad autorizzazione tali attivita', dal momento che, proprio per mezzo di un uso distorto dello strumento dell'autorizzazione, e grazie ad una interpretazione per certi versi "totalizzante" dell'art. 113 del T.U. delle leggi di pubblica sicurezza9, e' stata sostanzialmente repressa, anche dopo il 1948 e fino al momento della entrata in funzione della Corte costituzionale10, la liberta' di propaganda delle confessioni di minoranza (per non parlare dell'applicazione che e' stata fatta dell'art. 402 cod. pen., su cui ci riserviamo di tornare tra breve). Su un piano parzialmente diverso, inoltre, e' stato osservato che persino nelle leggi statali e regionali non mancano esempi di richiami a princi'pi generali o a norme costituzionali, e che, se queste riformulazioni di norme gia' presenti nella Costituzione sono certamente inutiliter datae nelle leggi ordinarie dello Stato - in quanto esso non puo' che ispirarsi alla propria Carta costituzionale -, non sono, invece, del tutto inutili nelle intese con le confessioni religiose, dal momento che lo strumento pattizio segna, e sottolinea, il momento dell'incontro tra due ordinamenti diversi11 ed indipendenti12, proprio per questo rendendo utile ed opportuno chiarire, in via preliminare, i princi'pi comuni ad entrambi gli ordinamenti13. Come non ha mancato di sottolineare la dottrina di parte ebraica14, se apparentemente, dal 1948 in poi, l'art. 19 della Costituzione non ha portato nulla di nuovo alla liberta' degli ebrei in Italia15, pure esso ha avuto una vera e propria portata rivoluzionaria, introducendo un nuovo status di liberta', da intendersi ora come condizione di uguaglianza, piuttosto che come condizione di privilegio, cosi' che, a partire dall'entrata in vigore della Costituzione repubblicana, la liberta' di esercitare, anche in pubblico, un culto diverso da quello cattolico, ha cessato di essere un'eccezione - riservata ai "culti ammessi" -, per diventare la regola, e gli ebrei, agli effetti della liberta' religiosa, hanno pertanto "cessato di essere diversi cosi' dai cattolici, come da coloro che professavano culti un tempo non ammessi. Essi sono diventati uguali a tutti"16. Ma la condizione giuridica subi'ta negli anni del fascismo - non solo in Italia, ma anche in tutta Europa -, ha fatto si' che il principio di uguaglianza inteso in senso prefascista non potesse piu' soddisfare gli ebrei. Alla rivendicazione della liberta' di essere come gli altri, non poteva ora non affiancarsi la rivendicazione della liberta' di essere ebrei, e il diritto di essere come gli altri non poteva non tradursi nel diritto di essere se' stessi17, di conservare la propria identita', e di vederla dagli altri rispettata18. Come e' stato sottolineato, "sembra un'affermazione ovvia, ma non lo e'"19, cosi' che, vista in quest'ottica, la prima parte dell'art. 2 della legge 101/1989 viene a costituire, allo stesso tempo, il presupposto indispensabile, e la ratio giustificatrice, delle successive norme "specifiche" dell'intesa, che sono volte ad assicurare ad ogni singolo ebreo la tutela, e la piena valorizzazione, della propria diversita'20. E quest'ultima affermazione viene ad assumere una importanza ancora maggiore, se si guarda a quel "contenuto doloroso di una tradizione d'intolleranza, che avrebbe voluto subordinare - cosi' nel pensiero cattolico come nel pensiero giacobino - il riconoscimento agli ebrei dell'eguaglianza dei diritti individuali alla condizione della rinuncia all'ebraismo, non volendosi riconoscere nel diritto alla diversita' il corollario necessario del riconoscimento dell'eguaglianza dei diritti"21. In tutte le occasioni in cui l'ebraismo italiano ha avuto la possibilita' di formulare proposte in merito alla politica ecclesiastica italiana22, non sono mancati appelli alla rinuncia tanto ad ogni trattamento economico privilegiario, cosi' come ad ogni tipo di esenzione fiscale, motivati talora con la preoccupazione di non giustificare il modello concordatario di rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica23, altre volte attraverso l'argomento secondo cui il sussiD-o finanziario da parte dello Stato finirebbe con l'essere pregiudizievole alla liberta' di essere ebrei24, e, quindi, alla stesse istanze di conservazione di un'identita' ebraica. Non si poneva, peraltro, in contrasto con quest'ottica di rifiuto di ogni privilegio finanziario che sembra fatta propria dall'intesa ebraica25 quello che, nella terza bozza d'intesa26, costituiva l'art. 19, il cui primo comma prevedeva che i programmi televisivi di argomento ebraico fossero realizzati direttamente dalla RAI, essendo riconosciuti di "interesse generale": infatti, come e' stato autorevolmente sottolineato da parte della dottrina27, l'intervento dello Stato non si risolve in un privilegio, quando e' motivato essenzialmente dalla esigenza di salvaguardia della identita' e del patrimonio culturale di una minoranza, che - non a caso e' stato evidenziato nel preambolo all'intesa ebraica del 1987 -, torna a "miglioramento, arricchimento e crescita civile dell'intera collettivita' nazionale". Tanto premesso, e' allora difficile darsi conto della scomparsa della disposizione dell'art. 19 della terza bozza dal testo definitivo dell'intesa, soprattutto, nella nostra opinione, se si pone mente al fatto che l'espressione "argomento ebraico", riferita al contenuto dei programmi televisivi in parola, puo' legittimamente non assumere una connotazione meramente religiosa, ma sembra, piuttosto verosimilmente, riferirsi all'intero patrimonio culturale della minoranza ebraica, tanto piu' che, come abbiamo avuto piu' volte occasione di ricordare, nell'ebraismo i tratti piu' prettamente religiosi sono difficilmente scorporabili e scindibili da quell'insieme ben piu' complesso di leggi, tradizioni e norme di comportamento, che ne costituiscono l'essenza stessa28. Prima di affrontare l'esame degli ultimi due commi dell'art. 2 della legge 101/1989, che si occupano della liberta' religiosa sotto il diverso aspetto della sua tutela penale, e' necessaria una breve premessa di ordine sistematico. Gia' all'indomani dell'entrata in vigore della Costituzione, invero, la dottrina piu' avvertita29 aveva avuto modo di manifestare serie perplessita' circa la persistente validita', in un ordinamento laico e pluralista, delle norme penali racchiuse negli artt. 402-406 e 724 cod. pen., le quali, ribaltando l'orientamento del regime liberale, e sulla linea neoconfessionista dello Stato autoritario, venivano a delineare un assetto normativo arroccato sulla tutela penale privilegiata della religione cattolica, in quanto (ex) religione di Stato. Ma se i tentativi di riforma del codice penale sono stati numerosi, nessuno di essi e' mai andato a buon fine30, e le disposizioni codicistiche in materia di tutela penale dei culti si sono opposte come un muro di gomma, e per oltre cinquant'anni, agli artt. 3, primo comma, e 8, primo comma, della Costituzione, tanto che si puo' senza alcun dubbio affermare che nessun altro settore della disciplina giuspenalistica abbia mai dimostrato altrettanta refrattarieta' ai princi'pi costituzionali31. Cio' che, con la migliore dottrina, va maggiormente rimarcato, comunque, e' che un tale costume di "sordita'" parlamentare, se risulta riguardare anche innumerevoli altri settori normativi, "non depone, certo, per una spiccata sensibilita' costituzionale del Parlamento"32, che continua ad ignorare la contraddizione di fondo di un sistema che seguita, nonostante tutto, ad essere imperniato sulla tutela penale privilegiata della (un tempo) religione di Stato, anche dopo che l'art. 1 del Protocollo aggiuntivo agli Accordi di villa Madama ha definitivamente sancito che "si considera non piu' in vigore il principio originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano". Secondo alcuni stuD-osi, proprio questa disposizione modificativa dei Patti del 1929 avrebbe, "per lo meno rispetto alle sue implicazioni penalistiche, un valore aggiunto che travalica la mera constatazione della improponibilita' di un confessionismo di Stato"33, cosi' che sarebbero da considerarsi caducate, perche' svuotate di contenuto, tutte le norme in cui sia rinvenibile un esplicito riferimento alla religione di Stato34, mentre la giurisprudenza della Corte regolatrice, piu' volte investita della questione, e' sempre stata di contrario avviso35. La questione della tutela penale del sentimento religioso ha formato, nel tempo, l'oggetto di storiche prese di posizione da parte delle confessioni religiose di minoranza, e, tra queste, soprattutto delle Chiese valdesi e delle comunita' ebraiche36. Queste ultime, in particolare, hanno avuto piu' volte occasione di affermare, secondo un'impostazione qui non dissimile da quella dei valdesi, che "una minoranza non deve limitarsi a chiedere l'estensione di un privilegio, qual e' attualmente la tutela penale del solo vilipenD-o diretto contro la religione dello Stato, ma deve lottare per un effettivo raggiungimento della piena liberta' religiosa"37, lasciando intravedere l'adesione alla linea gia' seguita dal codice penale Zanardelli38. Ma se, in sede di stipulazione dell'intesa, la Tavola valdese ha ribadito la sua convinzione che la fede non necessiti di tutela penale diretta39, il quarto comma dell'art. 2 della legge 101/1989 viene ad esigere, invece, una protezione penale specifica del sentimento religioso, laddove afferma che: "e' assicurata in sede penale la parita' di tutela del sentimento religioso e dei diritti di liberta' religiosa, senza discriminazioni tra i cittadini e tra i culti". e' stato osservato40 che la disposizione costituisce un chiaro esempio della rivendicazione dell'applicazione all'ebraismo di quella "clausola della religione piu' favorita" di cui si e' gia' avuto modo di parlare in precedenza41. Nella nostra opinione tale affermazione, in se' certamente esatta, richiede pero' di essere ulteriormente precisata, poiche', se presa qua tali, riuscirebbe forse fatalmente riduttiva della piu' ampia questione sottesa alla formulazione della norma in parola. Se non c'e' alcun dubbio, infatti, che, con essa, "gli israeliti vogliono garantirsi una tutela penale eguale a quella di cui gode la confessione cattolica"42, ad un piu' attento esame, risulta altrettanto evidente come la disposizione sia scaturita dalla amara constatazione del fallimento di ogni tentativo di riforma della materia, e dalla contemporanea, meditata consapevolezza - evidente, sul punto, sin dal testo della prima bozza del 1977 -, che, rebus sic stantibus, l'unica via da percorrere per assicurare comunque, e al piu' presto, l'uguale liberta' di tutte le confessioni religiose, sarebbe stata quella di una loro generale parificazione nella - pur non condivisa - tutela penale specifica del sentimento religioso43, a dimostrazione dell'urgenza con cui veniva sentita l'esigenza di una parita' di trattamento, se gli ebrei erano disposti, pur di averla, "anche a subirla nella dimensione mortificante del privilegio, piuttosto che attendere ulteriormente nella speranza di goderla nella dimensione gratificante della liberta'"44. Questo pensiero e' stato bene espresso, da parte ebraica, in sede di presentazione generale dell'intesa, con il riferimento alla norma de qua come ad una disposizione che "al di la' dell'aspetto meramente religioso, riafferma il principio dell'eguaglianza nella diversita'", nel senso che "fintantoche' il sentimento religioso e la liberta' dell'esercizio del culto saranno tutelati penalmente, non potra' esistere, come invece e' oggi, maggiore tutela per gli uni e minore per gli altri [culti]"45: non a caso, infatti, la disposizione afferma che la parita' di tutela del sentimento religioso deve essere assicurata "senza discriminazioni tra i cittadini e tra i culti", mostrando, quindi, di andare ben oltre la semplice rivendicazione dell'adattamento all'ebraismo della "clausola della religione piu' favorita" in materia di tutela penale della religione. Su questa stessa linea, e sviluppando ulteriormente la riflessione, e' stato, anche autorevolmente, affermato che proprio la disposizione del quarto comma dell'art. 2 della legge 101/1989 avrebbe "eliminato la disparita' della normativa penale [...] che tutelava il sentimento religioso del culto di maggioranza e dei suoi fedeli in maniera piu' grave rispetto a culti e fedeli di minoranza"46, cosi' che gli artt. 402-405 e 724 cod. pen. andrebbero oggi letti - in combinato disposto con l'art. 1 del Protocollo aggiuntivo agli Accordi di Villa Madama -, sostituendo alla locuzione "religione di Stato" l'inciso "sentimento religioso e i diritti di liberta' dei cittadini e dei culti", mentre sarebbe da considerarsi abrogato l'art. 406 cod. pen. La tesi e' senza dubbio suggestiva, e trova riscontro dall'esame della formulazione letterale della disposizione ora al nostro esame, soprattutto se raffrontata a quella dell'art. 4 della legge 449/1984, di approvazione dell'intesa con i valdesi ("La Repubblica italiana prende atto che la Tavola valdese..."): non c'e' alcun dubbio, infatti, che la disposizione dell'intesa valdese - sebbene di sostanziale riprovazione verso un settore della legislazione statale che i valdesi, come gli ebrei, non hanno mai mostrato di condividere -, difficilmente potrebbe avere un significato tale da trascendere la semplice natura programmatica47, dal momento che e' stata recepita nella legge di approvazione con una sorta di "presa di distanza" da parte dello Stato, a sottolineare il carattere di unilateralita' della affermazione di parte confessionale, della quale lo Stato si e' limitato a prendere atto ai fini di una eventuale futura riforma della parte speciale del codice penale. Non a caso, nel prosieguo, affermazioni praticamente identiche contenute nell'articolato delle intese successivamente stipulate con i "pentecostali" e - molto tempo dopo la conclusione dell'intesa con gli ebrei - con i battisti, hanno trovato la loro collocazione nei preamboli delle rispettive intese, e non sono piu' stati trasfusi nelle relative leggi di approvazione, a sottolineare, in modo ancora piu' incisivo di quanto era stato fatto a suo tempo con i valdesi, il carattere unilaterale e, comunque, la natura meramente programmatica di tali affermazioni delle confessioni in parola48. Cio' posto, la disposizione dell'intesa ebraica sembrerebbe chiara, invece, nel suo carattere precettivo: infatti, oltre alla ovvia constatazione che, se si fosse voluto attribuirle una semplice natura "direttiva", analoga a quella delle corrispondenti norme delle altre intese, nulla avrebbe impedito di collocarla, anche qui, nel preambolo del testo pattizio, la stessa formulazione lessicale della norma, secondo cui la parita' di tutela penale e' assicurata, appare di tutt'altro tenore rispetto a quella delle altre intese, venendo ad integrare, a detta di alcuni stuD-osi, una dizione tipicamente impositiva49, cosi' che sembrerebbe legittimo concludere, con la migliore dottrina, che le disposizioni dell'art. 2, comma 4 - e, come vedremo tra poco, anche comma 5 - della legge 101/1989 "garantiscano la liberta' religiosa in modo piu' ampio di quanto non facessero le vecchie norme degli artt. 402-406 cod. pen."50. Ma, se il coro degli stuD-osi e' stato unanime nel rilevare le particolarita' di formulazione della norma dell'intesa ebraica, la stessa concordanza di voci non si e' potuta, invece, riscontrare in ordine al ruolo, ed alla portata, da attribuire a tali particolarita'. Infatti, accanto a chi, come abbiamo appena visto, propende per l'attribuzione di un carattere immediatamente precettivo alla disposizione, altri stuD-osi ne hanno svalutato il dato prettamente letterale, cercando di dimostrare le insuperabili difficolta' che deriverebbero dall'accoglimento di una simile esegesi normativa. In particolare, parte degli stuD-osi, pur notando la diversita' di formulazione della norma ebraica rispetto a quelle delle altre intese, ha recisamente escluso la possibilita' di attribuire, alla stessa, un significato tale da travalicare, anche in questo caso, l'aspetto meramente programmatico51, sulla base della considerazione secondo cui la legislazione penale sostantiva rientra in modo esclusivo nell'ambito dell'ordine proprio dello Stato, tanto che le intese non possono modificarla, cosicche', a meno di non voler considerare incostituzionale la norma della legge 101/1989, non resta che attribuirle la portata di "norma di principio", tanto piu' che, avvicinando lo sguardo, ci si accorge che, al di la' delle diverse enunciazioni teoriche, le diverse formule dei testi pattizi sembrano convergere su un punto fondamentale: l'opposizione all'attuale disciplina52; cosi' stando le cose, secondo la dottrina in parola, sembra allora piu' aderente allo spirito dell'ordinamento concludere che la norma dell'intesa ebraica "non impegna lo Stato ad assicurare una "tutela penale dei culti", ma soltanto ad assicurare che tale tutela, laddove esso nella sua sovranita' volesse prevederla, sia paritaria per tutte le confessioni"53. In altre parole, l'intesa ebraica, su questo punto, non avrebbe fatto altro che recepire la preoccupazione, per gli ebrei, verso la tutela del fatto religioso, e la particolare sensibilita' alla disparita' di trattamento rispetto alla confessione di maggioranza54. Se non puo' essere posto in dubbio che la materia penale costituisce l'oggetto esclusivo della determinazione unilaterale statale, la dottrina ecclesiasticistica piu' autorevole ha, d'altra parte, replicato che l'intesa ebraica e' entrata a far parte dell'ordinamento italiano con un atto che costituisce una legge dello Stato, sia sotto il profilo formale, che su quello sostanziale, e che quindi "deve essere applicata quando si tratta d'interpretare gli artt. 402-406 e 724 cod. pen."55. Ma un'ulteriore - e piu' consistente - obiezione avanzata dalla dottrina, circa la possibilita' di un'interpretazione letterale della norma in esame, ha preso corpo a partire dalla ovvia constatazione secondo cui la legge 101/1989 regolamenta pur sempre i rapporti tra lo Stato ed una specifica confessione religiosa. Argomentando da tale dato di fatto, ci si e' cosi' posti l'interrogativo circa la possibilita', nel nostro ordinamento, della possibile validita' ultra fideles di quanto contenuto nelle intese56, che, in caso di soluzione negativa, porterebbe alla conclusione che quella tanto auspicata parificazione di tutela penale potrebbe essere applicata, al piu', nei confronti dei soli appartenenti alle comunita' ebraiche57. e' vero che, ponendosi come una sorta di status delle confessioni religiose nello Stato, le intese non potrebbero che riguardare l'insieme dei singoli appartenenti, ferma restando la vincolativita' generale nei confronti degli organismi statali58. Inoltre, come e' stato osservato, parrebbe norma di agevole osservanza che ogni legge di derivazione pattizia non possa - senza violare i limiti di competenza soggettiva posti dal terzo comma dell'art. 8 della Costituzione -, incidere su soggetti estranei alla confessione stipulante, e, quindi, ai rapporti tra essa e lo Stato59. Per contro, non si e' potuto fare a meno di notare come, de iure condito, sin dalla stipulazione dell'Accordo di Villa Madama, la limitazione ai soli cattolici di alcune norme del Concordato sia apparsa fortemente dubbiosa60, mentre anche nelle diverse intese con le confessioni di minoranza, non vi e' chi non veda come alcune disposizioni de facto siano venute a coinvolgere l'intera popolazione, a prescindere dai suoi convincimenti religiosi specifici61. Da parte ebraica, e con una decisa presa di posizione sul punto, non si e' mancato di sottolineare che le intese vengono sempre, e necessariamente, ad incidere in re aliena, poiche' le novita' introdotte dalle intese interessano piu' spesso di quanto non si creda tutti i cittadini, e non solo le confessioni stipulanti62, dal momento che, quando lo strumento pattizio viene ad essere approvato con legge, esso "esce dalla stretta cerchia degli interessati ed acquista efficacia erga omnes, e tale efficacia puo' tradursi in un allargamento dei diritti di tutti"63: il disposto del quarto comma dell'art. 2 della legge di approvazione dell'intesa ebraica verrebbe, cosi', a configurarsi come "il risultato dell'impegno ebraico, della partecipazione ebraica, alla creazione di una societa' piu' libera"64, mentre anche la parte piu' autorevole - sebbene, in questo caso, minoritaria - della dottrina "laica", ha avuto modo di affermare recisamente la natura di disposizione di "carattere generale" della norma ex art. 2, comma 4, della legge 101/1989, che "riguarda non solo gli ebrei, ma tutti"65. Nonostante questo acceso dibattito dottrinale circa la natura e la portata della disposizione in parola, se nel campo del diritto quello che conta, al fine, e' la sua applicazione pratica da parte della giurisprudenza, non va sottaciuto come la Corte costituzionale, che ripetutamente aveva avuto modo di invitare il legislatore ad intervenire in qualche modo sulle norme poste a tutela del sentimento religioso in modo da superare, una volta per tutte, l'insostenibile diversificazione di tutela tra la Chiesa cattolica e le confessioni di minoranza, non abbia mai preso in considerazione la norma penale contemplata dall'art. 2, comma 4, della legge 101/1989. Anche quando e' giunta ad estendere parzialmente l'ambito della tutela penale prevista dalla contravvenzione di cui all'art. 724 cod. pen.66, la Consulta ha infatti preferito inerpicarsi lungo astruse interpretazioni lessicali, piuttosto che confrontarsi con l'intesa ebraica67, sebbene, piu' recentemente68 - tentando, ancora una volta in via suppletiva69, di scogliere il "nodo gordiano" di un problema normativo di spettanza del Parlamento -, con la dichiarazione di illegittimita' della misura della pena prevista dall'art. 404 cod. pen. per contrasto con gli artt. 3, primo comma, e 8, primo comma, della Costituzione, non essendo tale pena diminuita come dispone, invece, l'art. 406 cod. pen., sia venuta sostanzialmente ad accogliere, in modo implicito, l'esigenza che sta alla base della norma dell'intesa ebraica70. Il fatto certo e' che, come e' stato recentemente sottolineato, l'inerzia del legislatore statale ha provocato un vero e proprio "mosaico penalistico che scaturisce dagli interventi della Corte costituzionale (ancora esiste il reato di vilipenD-o alla religione cattolica, ex art. 402; la pena di cui all'art. 404, 1° comma, e' stata equiparata a quella "minore" di cui all'art. 406; restano formalmente in vigore le previsioni di pena "maggiore" per i reati di cui agli artt. 403, 404, 2° e 3° comma, 405; la fattispecie di reato di bestemmia di cui all'art. 724 c.p. e' stata estesa alle offese alla Divinita' in generale) [che] potra' essere superato soltanto a seguito di una riforma radicale della materia e dalla conseguente cancellazione della disciplina del 1930"71. Il "diritto penale di religione" forma oggetto di considerazione anche della disposizione dell'ultimo comma dell'art. 2 della legge 101/1989, che estende alle "manifestazioni di intolleranza e pregiudizio religioso" il disposto dell'art. 3 della legge 13 ottobre 1975, n. 65472 (ratifica ed esecuzione della convenzione internazionale sull'eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, aperta alla firma a New York il 7 marzo 1966). Come e' stato notato dalla dottrina piu' attenta, la legge 654/1975 e' una legge di ratifica per certi versi anomala73, dal momento che, oltre all'autorizzazione alla ratifica ed all'ordine di esecuzione della convenzione internazionale, contiene, all'art. 3, una norma penale, in attuazione della convenzione stessa, che, infatti, non si limita a prescrivere agli Stati contraenti la promozione dell'integrazione razziale all'interno del proprio territorio, ma obbliga le Parti, da un lato, a non predisporre misure discriminatorie, e, dall'altro, a vietare ogni pratica discriminatoria, accordando a ciascun individuo strumenti effettivi di tutela innanzi ai tribunali statali. In attuazione di quest'obbligo, l'art. 3 della legge 654/1975, nella sua formulazione originaria, puniva la diffusione di idee fondate sulla superiorita' e sull'oD-o razziale, l'incitamento alla discriminazione ed alla violenza nei confronti di persone perche' appartenenti ad un gruppo nazionale, etnico o razziale e vietava, inoltre, le organizzazioni che avessero lo scopo di incitamento all'oD-o o alla discriminazione per motivi razziali, punendo la partecipazione alle medesime con pene che venivano, inoltre, aumentate per gli organizzatori ed i promotori delle organizzazioni stesse. Se il dettato della legge 654/1975 e' rimasto, per lungo tempo, praticamente lettera morta, esso e' stato riproposto all'attenzione degli stuD-osi dopo la stipulazione dell'intesa con l'Unione delle comunita' ebraiche. Come abbiamo avuto occasione di ricordare piu' volte nel corso della trattazione74, e come ha sottolineato lo stesso Giudice costituzionale in una sentenza rimasta famosa per le implicazioni che avrebbe avuto sull'elaborazione del testo dell'intesa da sottoporre alla controparte statuale75, per gli ebrei l'aspetto etnico e' indissolubilmente connesso a quello religioso. Nel capitolo precedente, abbiamo anche visto come, in sede di stipulazione dell'intesa, l'Unione delle comunita' abbia accettato la qualifica - per certi versi riduttiva, se riferita all'ebraismo -, di ente esponenziale di una realta' che e' (anche, ma non solo) una confessione religiosa, per avere modo di stipulare piu' facilmente l'intesa con lo Stato; ma proprio la stipulazione di quest'intesa, venendo a connotare maggiormente la realta' ebraica sotto l'aspetto religioso, avrebbe potuto determinare un diverso intendimento della natura delle comunita' ebraiche, tale da escluderle dalla tutela penale della legge 654/1975, che, non facendo alcun riferimento, nella formulazione originaria della norma dell'art. 3, all'elemento religioso, si sarebbe piu' facilmente potuta interpretare in senso restrittivo, escludendo quindi l'ebraismo dalla sua sfera di tutela76. Il richiamo di questa legge all'interno dell'intesa ebraica assume, dunque, la "duplice valenza di ribadire la natura etnica oltre che religiosa dell'esperienza ebraica e di chiarire che la copertura provvista dalla Convenzione sull'eliminazione di ogni discriminazione razziale si estende anche ai fenomeni etnici religiosamente caratterizzati"77, salvando cosi' l'intero patrimonio culturale che caratterizza l'essere ebreo nella Diaspora, nella cornice, ancora una volta, dell'assicurazione ad ogni ebreo della tutela della propria diversita'78. In questo senso, la norma della legge 101/1989 e' stata ritenuta "immediatamente precettiva"79, ma non e' mancato, anche qui, chi ha avuto modo di sottolineare l'inopportunita' di includere una norma di "interpretazione autentica" all'interno di una legge di derivazione pattizia80, anche se, successivamente, il tema della discriminazione per motivi razziali, etnici o religiosi e' stato innovato dalla legge 25 giugno 1993, n. 12281, di conversione del D.L. 26 aprile 1993, n. 12282, che, modificando l'art. 3 della legge 654/1975, ha ridisegnato le fattispecie delittuose ivi previste, includendovi, tra l'altro, apertis verbis il fattore religioso, tentando allo stesso tempo di riordinare, come una sorta di "Testo Unico sulla discriminazione per motivi razziali, etnici e religiosi", quella stratificazione di norme non sempre ben coordinate e, per questo, di applicazione non facile, che si era andata sviluppando in Italia a partire dalla legge Scelba83. Note:
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