4.6. L'istruzione religiosa e le scuole ebraiche. Gli istituti rabbinici.

Indubbiamente, la questione dell'insegnamento religioso cattolico nelle scuole pubbliche costituisce uno dei principali argomenti che avevano mosso l'Unione delle comunita' ebraiche a mettersi sulla via dell'intesa con lo Stato, quando l'avvio delle procedure per la revisione del Concordato aveva fatto nascere nella parte ebraica la preoccupazione che venissero cosi' presi impegni in re aliena1: come sottolinea la dottrina, "non vi e' stata modifica del Concordato lateranense che abbia fatto discutere, come quella relativa all'insegnamento della religione nelle scuole pubbliche"2, grazie alla quale, tuttavia - seppure attraverso una trattativa sofferta, piena di contrasti e di svolte -, una volta per tutte e' stato superato quel "modello confessionista o di smaccata preferenzialita' per la subordinazione del processo formativo ai valori della confessione cattolica"3.

E' innegabile, infatti, che il nuovo Accordo sia profondamente diverso, su questo punto, dal Concordato lateranense4. Se nel 1929 il legislatore fascista aveva avuto cura di evidenziare il valore politico del fatto religioso, considerato eminentemente in una prospettiva funzionalistica, ai fini di una maggiore coesione della societa', e come "veicolo di consenso per una affermazione capillare dello Stato totalitario"5, l'art. 9 della nuova normativa evidenzia invece il ribaltamento della prospettiva, che non guarda piu' all'insegnamento religioso cattolico come "fondamento e coronamento dell'istruzione pubblica" - come si esprimeva l'art. 36 del Concordato lateranense -, ma riconosce bensi' che la "cultura religiosa" (si noti, non solo quella cattolica) costituisce uno di quei molteplici valori che si collocano tra le "finalita' della scuola", e "tenendo conto che i princi'pi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano", assicura, agli studenti che abbiano scelto di avvalersene, "l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado", che deve, peraltro - come precisa il n. 5, lett. a), del Protocollo addizionale agli Accordi di Villa Madama -, essere impartito nel rispetto della liberta' di coscienza degli alunni.

Ed e' proprio per assicurare il rispetto della detta liberta' di coscienza che si e' introdotto, con la previsione di quella che la dottrina piu' autorevole ha definito come una "clausola di coscienza"6, il c.d. "diritto di scelta", abbandonando quindi il vecchio sistema dell'esonero che aveva caratterizzato la disciplina dell'insegnamento religioso cattolico nel Concordato lateranense7, e passando dal regime di obbligatorieta' al regime di facoltativita' (peraltro, "guidata"8, dal momento che la scuola, per motivi organizzativi, deve poter conoscere preventivamente quanti si avvarranno del servizio).

Ma, se pure questo abbandono del sistema dell'esonero andava nella direzione delle aspirazioni ideali propugnate dalle confessioni religiose diverse dalla cattolica - che tanto in passato lo avevano osteggiato, atteso che appariva certamente piu' armonico con il concetto di culti tollerati o ammessi, che non con quello della piena liberta' religiosa che caratterizza l'attuale Stato laico9 -, segnando, indubbiamente, un notevole passo avanti nella tutela della liberta' di coscienza di tutti gli utenti della scuola pubblica, le confessioni di minoranza, tra le quali in prima linea la Tavola valdese e l'Unione delle comunita' ebraiche, gia' durante le trattative per la revisione del Concordato avevano manifestato la propria sostanziale disapprovazione per la discriminazione derivante dalla "incorporazione" dell'insegnamento religioso cattolico che - pur su nuove basi -, continuava a realizzarsi nelle strutture pubbliche, e a spese dello Stato10.

Da parte ebraica, ci fu anche un'interruzione delle trattative per addivenire all'intesa11, ma, atteso che la Santa Sede al riguardo continuava ad essere irremovibile, nella compilazione della normativa bilaterale si scelse, in ultimo, una linea di "carattere difensivo"12, dettata dalla preoccupazione che, a causa della forte presenza del cattolicesimo nella societa' italiana, anche le materie strettamente "secolari" potessero in qualche modo risentire, se non di un insegnamento religioso diffuso, di un implicito orientamento ideologico13: in questo senso sembra deporre la disposizione del primo comma dell'art. 11 della legge 101/1989, secondo la quale l'insegnamento, nelle scuole pubbliche di ogni ordine e grado, deve essere impartito "nel rispetto della liberta' di coscienza e di religione e della pari dignita' dei cittadini senza distinzione di religione, come pure e' esclusa ogni ingerenza sulla educazione e formazione religiosa degli alunni ebrei".

La disposizione de qua, nel tutelare la liberta' religiosa intesa soprattutto come liberta' di coscienza, considera partitamente l'educazione e la formazione religiosa degli alunni ebrei: in proposito, e' stato scritto14 che, mentre il termine di formazione attiene esclusivamente agli "aspetti fideistici", quello di educazione sembrerebbe indicare invece un quid pluris, identificabile probabilmente nell'ebraismo stesso, che, come abbiamo visto ampiamente15, e' un insieme vasto e composito di religione, etnia, cultura e tradizione di un popolo, un ordinamento giuridico in cui non puo' farsi distinzione tra "diritto" e "religione", "giacche' cola' la "religione" e' "diritto" ed il "diritto" e' "religione": disciplina regolatrice dell'intiera vita dell'uomo, anche in funzione dei suoi rapporti con la divinita'"16.

Secondo parte della dottrina17, il principio, di cosi' ampio respiro, formalizzato in questa disposizione dell'intesa ebraica, avrebbe addirittura anticipato quanto sancito, in via successiva, dalla Corte costituzionale con la piu' volte citata sentenza 203/1989 in tema di laicita' dello Stato, "ed e' un notevole esempio di come le intese possano contenere norme a tutela dei diritti di liberta' di tutti i cittadini"18.

Il secondo comma dell'articolo 11 dell'intesa ebraica, non dissimilmente da tutti gli altri testi pattizi19, riconosce "agli alunni delle scuole pubbliche non universitarie il diritto di non avvalersi di insegnamenti religiosi", con un ricalco, nelle sue linee generali, della previsione contenuta nell'Accordo di revisione del Concordato20, mentre il comma successivo, "per dare reale efficacia a tale diritto", sancisce il divieto di discriminazione tra alunni avvalentisi e alunni non-avvalentisi dell'insegnamento religioso cattolico, prevedendo a tal fine non solo che il detto insegnamento non debba avere luogo secondo orari e modalita' che possano comunque avere effetti discriminanti per gli stessi, ma anche che non debbano essere previste forme di insegnamento religioso diffuso nell'ambito dello svolgimento dei programmi di altre materie; in ogni caso, conclude la disposizione, "non possono essere richieste agli alunni pratiche religiose o atti di culto".

Riservandoci di tornare tra poco sulla questione del divieto di insegnamento religioso diffuso, e' opportuno soffermarci qui - seppure in modo assai succinto, e consapevoli del fatto che il tema meriterebbe una trattazione a se' -, sul divieto di orari e modalita' che abbiano, per gli alunni, effetti comunque discriminanti, previsto in tutte le intese - ma la previsione delle modalita' e' stata una novita' introdotta dall'intesa ebraica, seppure poi ripresa in alcune altre intese successive21 - e che, com'e' noto, e' stato all'origine di uno dei dibattiti piu' accesi degli ultimi anni, talvolta non privo di spunti polemici, anche all'interno delle stesse forze politiche del Paese: quello sulla questione della c.d. "ora alternativa" all'insegnamento della religione cattolica.

Riassumendo brevemente i termini del problema, si puo' dire che il dibattito si sia incentrato, all'inizio, sulla circolare del 29 ottobre 1986, n. 302, del Ministero della Pubblica Istruzione. Partendo dall'idea della necessita' di garantire la fruizione di un uguale tempo-scuola a tutti gli alunni, infatti, si era pensato che la scuola dovesse comunque offrire occasioni di stuD-o "alternative" agli alunni non-avvalentisi dell'insegnamento della religione, in modo da non comportare per questi ultimi una ingiustificata riduzione di orario rispetto agli avvalentisi (e in cio' stava la "non discriminazione"): la citata circolare sanciva, appunto, la obbligatorieta' dell'ora alternativa per coloro che avessero scelto di non avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica offerto dalla scuola pubblica.

Sul fronte opposto di questa linea interpretativa si collocavano, invece, gli ebrei e le altre confessioni di minoranza, che sostenevano che proprio cosi', invece, si realizzava la discriminazione che le intese avrebbero voluto evitare, perche' la facoltativita' dell'insegnamento religioso cattolico veniva in tal modo a confluire nella opzionalita' degli insegnamenti, attesa l'alternativa posta tra le diverse attivita' didattiche, contraddicendo, inoltre, lo stesso Concordato con la Chiesa cattolica22.

Da parte ebraica, in particolare, si ritenne opportuno ribadire questa linea di pensiero nella mozione di approvazione dell'intesa, affermando, al punto 4, che la previsione del diritto di non avvalersi degli insegnamenti religiosi "acquista particolare significato in quanto, nell'esercizio del diritto di scelta, non prevede obblighi per coloro che non intendono avvalersi dell'insegnamento della religione cattolica", e che "alla luce della presente intesa, modalita' che prevedano obblighi sono, quindi, da ritenersi comunque discriminanti"23.

La sentenza 203/1989 della Corte costituzionale, di cui ci siamo gia' occupati piu' volte, diede sostanzialmente ragione all'interpretazione che era stata caldeggiata - tra l'altro - dalla parte ebraica, argomentando che i non-avvalentisi dell'insegnamento religioso cattolico versassero in uno "stato di non obbligo", escludente, ipso facto, la possibilita' di configurare come obbligatorio qualunque tipo di insegnamento alternativo, sul presupposto che cio' avrebbe comportato un condizionamento "per quella interrogazione della coscienza, che deve essere conservata attenta al suo unico oggetto: l'esercizio della liberta' costituzionale di religione"24, mentre con una successiva sentenza del 199125 la stessa Corte tornava ad occuparsi della questione del c.d. stato di non-obbligo, e portava il ragionamento alle sue estreme conseguenze, specificando che esso poteva comportare anche la scelta di allontanarsi dall'edificio della scuola.

Ma, in questo modo, lo stato di non-obbligo dei non avvalentisi, comprensivo di questo "diritto di assenza"26, veniva a riverberarsi sugli alunni che invece decidevano di avvalersi dell'insegnamento religioso cattolico, operando comunque una discriminazione nei loro confronti, dal momento che il tempo-scuola di questi ultimi era cosi' maggiore di quello dei non-avvalentisi.

Questi, in sostanza, i termini del problema; cosi' prospettata la questione, e' chiaro come la controversia fosse destinata a rimanere insoluta, attesa l'inconciliabilita' delle due opposte soluzioni, perlomeno in relazione al profilo del diverso tempo-scuola di cui venivano ad usufruire gli alunni; un profilo, del resto, non indifferente, se e' vero che, in un sistema scolastico "rigido" quale e' il nostro, il reclamo dell'esigenza di un uguale tempo-scuola assurge alla dignita' di un vero e proprio principio: "quello di uguaglianza nel trattamento scolastico degli alunni"27 .

Se non sono mancate, peraltro, alcune felici indicazioni su come risolvere questa situazione di "stallo" del sistema, come quella della c.d. "proposta Scoppola", consistente nell'istituzione di un'ora alternativa di cultura religiosa obbligatoria per tutti i non-avvalentisi28 - in linea, del resto, con la dottrina piu' autorevole, che ha ritenuto che la mancanza, nella scuola pubblica, di un insegnamento parallelo, aconfessionale, sulla religione, si ponga in aperta contraddizione proprio con quel "valore della cultura religiosa" che non solo e' affermato nel nuovo Concordato, ma e' rintracciabile anche nelle intese con le confessioni di minoranza29 -, non puo' sottacersi, d'altro canto, la forte e tenace opposizione a qualsiasi tipo di attivita' culturale-formativa prevista in via obbligatoria, manifestata dalle confessioni di minoranza, che, costituitesi in un fronte compatto, continuarono a reclamare il diritto di potersi assentare da scuola, rivolgendosi al giudice amministrativo per l'accoglimento delle proprie lagnanze30. Ma occorre dire che la proposta non fu ben accolta neppure dalle autorita' ecclesiastiche, a causa della diffidenza della Chiesa cattolica verso forme di cultura religiosa da lei stessa non controllate, ne' dalla gran parte delle forze politiche di ispirazione "laica", che temevano comunque una possibile "confessionalizzazione" della scuola31.

Invero, una sensibile inerzia e' stata dimostrata dal Parlamento, il quale peraltro, almeno nel prosieguo del dibattito, si e' trovato fortemente limitato, nelle sue prerogative, proprio a causa delle citate pronunce della Corte costituzionale: infatti, mentre la regolamentazione giuridica della condizione degli alunni non-avvalentisi ben avrebbe potuto formare oggetto della regolamentazione unilaterale statale, le argomentazioni svolte dalla Corte - secondo cui la previsione di un insegnamento aconfessionale obbligatorio per tutti avrebbe sostanzialmente leso i princi'pi costituzionali sulla liberta' di coscienza e di religione -, sono andate nel senso opposto, finendo per limitare fortemente, come si e' detto, la discrezionalita' sulla materia del legislatore, la cui inerzia e' cosi' venuta ad essere "giustificata" dalla stessa Corte costituzionale32

Per concludere l'esame del terzo comma dell'art. 11 della legge 101/1989, qualche parola va spesa, ancora, con riguardo al gia' menzionato divieto delle "forme di insegnamento religioso diffuso nello svolgimento dei programmi di altre discipline" che e' previsto anche nelle intese con le altre confessioni, eccezion fatta per quella con la Tavola valdese.

Il nostro ordinamento ha conosciuto solo un tipo di insegnamento religioso diffuso di carattere confessionale, quello cattolico, che, nei programmi didattici delle scuole primarie, ancora in eta' repubblicana le disposizioni del Concordato lateranense consideravano, come abbiamo gia' visto, "fondamento e coronamento dell'istruzione pubblica". Ma anche se nel sistema attuale, con la riforma del Concordato e l'approvazione dei nuovi programmi didattici della scuola primaria con D.P.R. 12 febbraio 1985, n. 104, non c'e' piu' traccia di detto insegnamento diffuso - ne' cattolico, ne', tantomeno, di altro credo religioso -, la normativa di derivazione pattizia con le confessioni religiose sul divieto dell'insegnamento religioso diffuso ha dato luogo ad una vicenda giurisprudenziale che ha suscitato, nella dottrina, non poche perplessita'.

Ci riferiamo, in particolare, ad una ordinanza pretorile33 che ha reputato che l'adozione di un determinato libro di testo per la scuola elementare che riportava, in alcune pagine, degli accenni alla tradizione religiosa cattolica, violasse il divieto di insegnamenti religiosi diffusi, inibendo percio' agli insegnanti l'utilizzazione di quelle parti del testo. Anche se, nel prosieguo, il provvedimento e' stato revocato dal Tribunale34 - peraltro, in forza di ragioni meramente procedurali, attesa l'incompetenza del giudice ordinario a decidere su di un provvedimento amministrativo -, il caso in esame, come e' stato scritto in proposito, dimostra come il giudizio sull'effettiva sussistenza di un insegnamento confessionale diffuso, oltre che l'interpretazione delle stesse norme che vietano un tale tipo di insegnamento, vadano affrontati con il giusto equilibrio ed estrema attenzione, per evitare di cadere in situazioni quantomeno paradossali35.

Infatti, l'insegnamento religioso "diffuso" va inquadrato nella sua giusta realta' ontologica. Nel caso in esame, ad esempio, si era ritenuto che un bambino di sei anni potesse subire una lesione del suo diritto di liberta' religiosa in conseguenza della lettura in classe, in occasione del Natale, delle pagine di un libro in cui si parlava della tradizione cattolica del presepe, della Madonna e dell'Angelo custode: sennonche', come e' stato giustamente osservato, il diritto di liberta' religiosa non e' violato dall'esposizione dei princi'pi di una determinata religione nel corso dell'insegnamento delle realta' culturali di un Paese, bensi' solamente "dall'indottrinamento palese o subdolo in una religione"36, e questo non era certamente il caso di specie.

Anche in forza delle succitate considerazioni, e confortati dalla migliore dottrina, riteniamo che le norme in discussione vadano lette - affinche' non le si possa considerare inutiliter datae -, "nell'ottica di un limite posto soltanto ad eventuali posizioni estreme"37, prospettabili, ad esempio, nelle figure del docente-catechista e dell'educatore-ateo38: e questo proprio per non frustrare la dimensione culturale che la Repubblica italiana riconosce, oggi, alla religiosita', perche' opinando diversamente si correrebbe il rischio di "mutilare" gran parte delle materie, talche' ne risulterebbe irrimediabilmente compromessa, in ultimo, la stessa dimensione educativa della scuola39.

Il pluralismo, e' stato scritto, esige il rispetto di tutte le minoranze, ma non postula di certo l'erezione di barriere tra queste e la "maggioranza", "e come non puo' destar scandalo che la maggioranza si istruisca su quanto crede la minoranza, non puo' dar luogo a polemiche il fatto che la minoranza riceva notizie sulle credenze, i riti e i miti della maggioranza"40.

Ma la necessita' di realizzare un "progetto educativo" che si ponga in sintonia con l'attuale pluralismo esistente nella societa' civile non esclude, comunque, la possibilita' di valorizzare i singoli apporti specifici delle diverse confessioni in ordine al fatto religioso: proprio la promozione di una sorta di "concorrenzialita' confessionale"41, infatti, non potra' che potenziare il ruolo attivo della scuola in proposito, consentendole di allargare anche in modo sostanziale la gamma delle proposte e quindi, in ultimo, di offrire una risposta sempre piu' adeguata e soddisfacente alla domanda di istruzione42.

In questa prospettiva si pongono tutte le intese43, e d'altronde, come e' stato osservato, "sarebbe stato sorprendente il contrario: che una confessione religiosa, cui e' istituzionale far conoscere la verita' del proprio credo, delle proprie dottrine, la positivita' della propria esperienza storica, rifiutasse cioe' l'opportunita' di una presentazione critica del pensiero religioso all'interno della scuola"44.

Su questa linea, il quarto comma dell'art. 11 della legge 101/1989 si preoccupa di assicurare anche agli ebrei una forma di presenza all'interno della scuola pubblica, garantendo agli incaricati designati dalla confessione ebraica, nell'ambito delle attivita' di carattere culturale previste dall'ordinamento scolastico, "il diritto di rispondere ad eventuali richieste provenienti dagli alunni, dalle loro famiglie o dagli organi scolastici in ordine allo stuD-o dell'ebraismo", peraltro, con un totale accollo degli oneri finanziari a carico della confessione stessa.

Una considerazione a se' merita la natura dell'oggetto sul quale potra' vertere questa presenza ebraica, nel quadro delle attivita' culturali previste dall'ordinamento scolastico: solo l'intesa ebraica, infatti, con l'espressione di "stuD-o dell'ebraismo", sembrerebbe fare riferimento allo stuD-o di una specifica religione, mentre le altre intese prevedono, piu' genericamente, lo "stuD-o del fatto religioso e delle sue implicazioni". Ma, a guardare oltre il dato puramente letterale, le differenze tra i due tipi di formulazioni tendono a stemperarsi non poco, tendendo, se non a coincidere, ad incontrarsi in meD-o: innanzitutto, per quanto riguarda l'intesa ebraica, sembra logico ritenere che lo "stuD-o dell'ebraismo" non potra' risolversi unicamente in uno specifico insegnamento "confessionale", ma, in considerazione del carattere complesso che connota da sempre la realta' ebraica, comportera' necessariamente la presentazione di "quella pluralita' di aspetti sociali, etnici, culturali e comportamentali che lo caratterizzano"45; per quanto concerne, invece, le altre confessioni, occorre osservare, con la migliore dottrina, come lo "stuD-o del fatto religioso e delle sue implicazioni" - impartito da soggetti designati dalle rispettive confessioni -, non potra' consistere in una analisi "asettica" ed astratta, pur se criticamente impostata, del fenomeno religioso, ma sara' piuttosto finalizzato ad evidenziare, quanto meno, un particolare "punto di vista" della confessione46: infatti, ragionando diversamente, riuscirebbe veramente difficile darsi conto del perche' "si sia demandato istituzionalmente alle chiese che hanno stipulato le rispettive intese il (giusto) diritto di rispondere alle eventuali richieste di confronto con il fatto religioso"47.

Se le disposizioni dell'art. 11 della legge 101/1989 si pongono, come abbiamo visto, nella prospettiva della liberta' nella scuola, il successivo art. 12 si pone invece in quella, non meno rilevante, della liberta' della scuola, alla cui base si pone, tra l'altro, anche la liberta' religiosa prevista dall'art. 19 della Costituzione, e non solo perche', in una prospettiva storica, le istituzioni scolastiche non statali sono state in buona parte confessionalmente orientate, ma anche, e soprattutto, perche' spesso e' proprio il fattore religioso che viene a costituire l'elemento giustificativo della pluralita' di scelte in materia di educazione48.

Nella tradizione ebraica, l'insegnamento religioso non sembra possa essere lasciato alla famiglia - anche se questa continua a costituire la sede principale della conservazione e del rispetto delle tradizioni -, ma deve essere assunto, istituzionalmente, dalla scuola49: di qui l'importanza, per l'ebraismo, del riconoscimento - operato dal primo comma dell'articolo in questione - del diritto di istituire liberamente "scuole di ogni ordine e grado e istituti di educazione", "in conformita' al principio della liberta' della scuola e dell'insegnamento e nei termini previsti dalla Costituzione".

Alle dette scuole che ottengano la "parita'", inoltre, il secondo comma assicura il godimento di una "piena liberta'", garantendo nel contempo ai loro alunni "un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni delle scuole dello Stato e degli altri enti territoriali, anche per quanto concerne l'esame di Stato". Come e' stato osservato, se il riconoscimento a queste scuole della piena liberta' si risolve, in pratica, nell'esclusione di ogni intervento delle autorita' scolastiche per cio' che concerne l'organizzazione degli studi, le discipline insegnate, e la nomina degli insegnanti50, e' chiaro che tale liberta' non comporta, comunque, un'esenzione dal rispetto di quelle altre norme dell'ordinamento statuale concernenti aspetti della vita sociale diversi da quelli scolastici stricto sensu, segnatamente, la conformita' degli edifici scolastici alle nome sull'edilizia e sull'igiene dei luoghi, come e', del resto, ugualmente evidente che la piena liberta' delle scuole non esclude l'intervento della polizia giudiziaria, ove, in ipotesi, nei loro locali fossero commessi dei reati51.

I primi due commi dell'art. 12 della legge 101/1989 si ritrovano, praticamente identici, anche nelle intese concluse con gli avventisti, i luterani e, in ultimo, con i buddhisti, a cui possono, pertanto, venire estese le medesime considerazioni sopra formulate52. Se e' agevole osservare che, a loro volta, tutte queste intese ricalcano il primo comma dell'art. 9 dell'Accordo di modificazione del Concordato, occorre comunque sottolineare che, ancora prima, e' lo stesso testo costituzionale, all'art. 33, a sancire il principio della liberta' della scuola, sicche' si puo' ben dire, con la migliore dottrina, che quanto e' stato riconosciuto alle confessioni tramite le intese non e' altro che "la trasformazione di un principio costituzionale in un impegno contrattuale dello Stato che non puo' non valere a rafforzare - quanto meno nei confronti delle confessioni direttamente coinvolte - il dovere dello Stato stesso a dare applicazione al principio in questione"53.

Resta da dire dell'ultimo comma della legge 101/1989, che, a differenza dei precedenti, contempla una disposizione peculiare dell'intesa ebraica: infatti, vi si dispone espressamente che alle scuole elementari costituite dalle comunita' ebraiche ai sensi dell'art. 24 del R.D. 289/1930, resti garantito il trattamento derivante dall'applicazione di quella norma, nonostante la vecchia normativa abbia cessato, sotto ogni altro aspetto, di avere efficacia nei confronti della confessione ebraica, giusta il disposto del secondo comma dell'art. 34 della legge 101/1989. Se, secondo alcuni autori, la disposizione costituirebbe un indizio, sul piano generale, del piu' o meno inconsapevole favore che era tributato, almeno da una parte dell'ebraismo, alla vecchia normativa, ora sostituita dalla nuova disciplina ma comunque "non del tutto ripudiata"54, siamo tuttavia dell'opinione che la disposizione possa trovare comunque una propria, autonoma ratio se solo si guarda alla funzione "suppletiva" che le scuole elementari costituite dalle comunita' ebraiche ai sensi del citato R.D. venivano a svolgere nel sistema scolastico italiano: si trattava, infatti, delle cosiddette scuole "a sgravio", che sollevavano l'ente pubblico dall'onere di costituire una scuola pubblica, sostituendosi totalmente a questa.

Passando rapidamente all'esame dell'art. 13, e' da dire che esso prevede il riconoscimento dei titoli di stuD-o rilasciati dalle scuole deputate, dall'ebraismo, alla formazione dei propri ministri di culto. Con il ricalco delle soluzioni gia' adottate dagli Accordi di Villa Madama e dai trattati internazionali, il primo comma prevede il riconoscimento della laurea rabbinica e del diploma di cultura ebraica - rilasciati al termine di corsi di durata almeno triennale dal Collegio Rabbinico Italiano, dalla Scuola Rabbinica Margulies-Disegni di Torino nonche' da altre scuole approvate dall'Unione delle comunita' -, a studenti in possesso del titolo di stuD-o di scuola media superiore.

Il secondo comma, piuttosto laconico, si limita a specificare che i regolamenti di tali scuole, comprese le eventuali modificazioni, debbano essere comunicati al Ministero della Pubblica Istruzione; la disposizione, a differenza di quelle corrispondenti delle intese con gli avventisti ed i "pentecostali"55, non prevede espressamente che la gestione di tali istituti e la nomina del personale insegnante siano di esclusiva spettanza degli organi confessionali, ma, come e' stato sottolineato in dottrina, lo si puo' dedurre implicitamente, atteso l'obbligo di notifica al Ministero del regolamento vigente e delle eventuali modifiche56.

Un ulteriore caso di applicazione della "clausola della confessione piu' favorita" e' riscontrabile nel terzo comma, che equipara gli studenti delle scuole e istituti rabbinici agli studenti universitari, ai fini della concessione del beneficio del rinvio del servizio militare fino al ventiseiesimo anno di eta', con imitazione dell'art. 4, terzo comma, dell'Accordo concordatario57.

Note:

  1. Cfr. G. Long, Le confessioni religiose "diverse dalla cattolica", cit., p. 181.Torna
  2. Cosi' R. Botta, L'ora di religione, in Aa. Vv, Las relaciones entre la Iglesia y el Estado. EstuD-os en memoria del profesor Pedro Lombardia, Madrid, 1989, p. 689.Torna
  3. C. Cardia, Progetto educativo e fattore religioso, in Aa. Vv., Concordato e Costituzione. Gli accordi del 1984 tra Italia e Santa Sede, a cura di S. Ferrari, Bologna, 1985, p. 169.Torna
  4. Cfr. F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., p. 413.Torna
  5. R. Botta, L'ora di religione, cit., p. 691.Torna
  6. Cosi', infatti, G. Dalla Torre, L'insegnamento della religione nel Concordato revisionato, in DE, 1984, I, p. 402.Torna
  7. Cfr. ancora R. Botta, L'ora di religione, cit., p. 693.Torna
  8. G. Dalla Torre, La questione scolastica nei rapporti fra Stato e Chiesa, Bologna, 1989, p. 153.Torna
  9. Cfr. G. Dalla torre, La questione scolastica nei rapporti fra Stato e Chiesa, Bologna, 1989, p. 140.Torna
  10. Cfr. F. Giolli, La repubblica e le minoranze religiose. Le intese con valdo metodisti, avventisti, pentecostali e Comunita' ebraiche, in Nuova antologia, 1987/4, p. 333.Torna
  11. Su questo punto, v. supra, § 2.4.Torna
  12. G. Long, Le confessioni religiose "diverse dalla cattolica", cit., p. 182.Torna
  13. Cfr. V. Parlato, Le intese con le confessioni acattoliche, cit., p. 124.Torna
  14. Cfr. V. Pedani, Liberta' religiosa dell'ebreo e insegnamento della religione nelle scuole pubbliche, in Studi urbinati, 1988 89/1989 90, n. 41 42, p. 253.Torna
  15. V. supra, §§ 1.1 e 1.2.Torna
  16. Cosi' V. Tedeschi, Il matrimonio secondo la "Intesa tra Repubblica italiana e l'Unione delle comunita' israelitiche italiane", in Riv. dir. civ, 1987, I, p. 265.Torna
  17. Cfr. G. Sacerdoti, Attuata l'intesa tra lo Stato italiano e le Comunita' ebraiche, cit., p. 820.Torna
  18. In questo senso, cfr. ancora Cfr. G. Sacerdoti, Attuata l'intesa tra lo Stato italiano e le Comunita' ebraiche, cit., p. 820.Torna
  19. Si vedano l'art. 9, secondo comma, L. 449/1984; l'art. 11, primo comma, L. 516/1988; l'art. 8, primo comma, L. 517/1988; l'art. 8, primo comma, L. 116/1995; l'art. 10, primo comma, L. 520/1995; l'art. 5, primo comma, dell'intesa con i buddhisti, e l'art. 5, secondo comma, di quella con i testimoni di Geova.Torna
  20. Cfr. R. Botta, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 234.Torna
  21. Segnatamente, nell'intesa con i battisti (art. 8, secondo comma, L. 116/1995), e con i testimoni di Geova (art. 5, terzo comma dell'intesa).Torna
  22. Cfr. C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 427.Torna
  23. La mozione di approvazione dell'intesa ebraica del 27 febbraio 1987 puo' essere letta in RMI, 1987/3, p. XXII.Torna
  24. Corte cost., sent. n. 203/1989, cit., c. 1345.Torna
  25. Corte cost., sent. 14 gennaio 1991, n. 13, in FI, 1991, I, cc. 365 ss.Torna
  26. R. Botta, Ora di religione: i corsi alternativi ledono i diritti soggettivi, in Corr. giur., 1998/4, p. 421.Torna
  27. R. Bertolino, Diritto di scelta dell'insegnamento della religione cattolica, cit., p. 20.Torna
  28. Sulla c.d. "proposta Scoppola", cfr. R. Bertolino, L'insegnamento della religione nella scuola pubblica, in Aa. Vv., Las relaciones entre la Iglesia y el Estado, cit., p. 684, e V. Turchi, Gli insegnamenti di religione nel sistema scolastico italiano, in Diritto e societa', 1994/1, p. 204, anche in nota.Torna
  29. Cfr. R. Bertolino, Diritto di scelta dell'insegnamento della religione cattolica, cit., p. 17. Nello stesso senso si e' espresso anche R. Botta, L'ora di religione, cit., p. 691, il quale precisa che, in uno Stato come il nostro, che si e' costituzionalmente imposto di assicurare la tutela del sentimento religioso dei cittadini, la scuola non puo' ignorare la dimensione religiosa ed etica della vita sociale, con la conseguenza, secondo l'A., che l'insegnamento sul fatto religioso dovra' necessariamente partecipare al "progetto educativo" che l'istituzione scolastica pubblica e' chiamata a predisporre.Torna
  30. Si veda, in questo senso, il ricorso presentato, tra gli altri, dall'Unione delle comunita' ebraiche contro l'istituzione delle attivita' didattiche e formative, e deciso dal Tar Lazio, Sez. III, sent. 30 marzo 1990, n. 617, in FI, 1990, III, cc. 333 ss.Torna
  31. Cfr. V. Turchi, Gli insegnamenti di religione nel sistema scolastico italiano, cit., p. 204.Torna
  32. Cfr. ancora V. Turchi, Gli insegnamenti di religione nel sistema scolastico italiano, cit., p. 206.Torna
  33. Pret. Torino, ord. 5 dicembre 1989, in Giur. it., 1990, I, 2, cc. 765 ss.Torna
  34. Trib. Torino, sez. I, ord. 5 febbraio 1990, in QDPE, 1990/1, pp. 207 ss.Torna
  35. In questo senso, cfr. V. Turchi, Gli insegnamenti di religione nel sistema scolastico italiano, cit., p. 212.Torna
  36. F. Finocchiaro, L'art. 700 c.p.c. come mezzo per la censura sui libri di testo delle scuole pubbliche; a proposito dell'insegnamento della religione cattolica, in Giust. civ., 1990, I, 2, p. 2695.Torna
  37. Cosi', V. Turchi, Gli insegnamenti di religione nel sistema scolastico italiano, cit., p. 213.Torna
  38. Cfr. L. Ciliento - D. Conserva, Chi ha paura del pettirosso? (Liberta' di coscienza tra confessioni religiose, sistemi filosofici, autorita' familiare e istruzione scolastica), in Giur. it., I, 2, c. 769.Torna
  39. Cfr. ancora V. Turchi, Gli insegnamenti di religione nel sistema scolastico italiano, cit., p. 212.Torna
  40. Cosi' F. Finocchiaro, L'art. 700 c.p.c. come mezzo di censura sui libri di testo delle scuole pubbliche, cit., p. 2695.Torna
  41. L'espressione e' mutuata da R. Botta, L'ora di religione, cit., p. 691.Torna
  42. Cfr. ancora R. Botta, L'ora di religione, cit., p. 691.Torna
  43. Si vedano l'art. 10, L. 449/1984; l'art. 12, primo comma, L. 516/1988; l'art. 9, primo comma, L. 517/1988; l'art. 9, primo comma, L. 116/1995; l'art. 11, primo comma, L. 520/1995; l'art. 5, secondo comma, dell'intesa con i buddhisti, e l'art. 5, quarto comma, dell'intesa conclusa con i testimoni di Geova.Torna
  44. Cosi', R. Bertolino, Diritto di scelta dell'insegnamento della religione cattolica, cit., p. 14.Torna
  45. Cosi', V. Pedani, Note comparative sul valore dell'ebraismo nelle intese con le comunita' ebraiche in Italia ed in Spagna, in Aa. Vv., Principio pattizio e realta' religiose minoritarie, cit., p. 359. Cfr. anche Id., Liberta' religiosa dell'ebreo e insegnamento della religione nelle scuole pubbliche, cit., p. 258.Torna
  46. Cfr. , in questo senso, R. Botta, Ora di religione: i corsi alternativi ledono i diritti soggettivi, cit., p. 427.Torna
  47. Cosi', V. Turchi, Gli insegnamenti di religione nel sistema scolastico italiano, cit., p. 199, in nota, che continua dicendo che sembra logico ,allora, "ritenere che il carattere confessionale anche di questi insegnamenti sia imprescindibilmente legato alla logica di ogni normativa bilateralmente convenuta con le confessioni religiose".Torna
  48. Cfr. G. Dalla Torre, La questione scolastica nei rapporti fra Stato e Chiesa, cit., pp. 77 s.Torna
  49. In proposito, cfr. G. Fubini, La scuola e noi, in RMI, 1985/1, p. 4.Torna
  50. Cfr. V. Parlato, Le intese con le confessioni acattoliche, cit., p. 122.Torna
  51. Cfr. F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., p. 406.Torna
  52. Si vedano, in particolare, l'art. 13, L. 516/1988; l'art. 12, L. 520/1995, e l'art. 6 dell'intesa buddhista.Torna
  53. Cosi', R. Botta, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 243.Torna
  54. Cfr., in questo senso, G. Long, Le confessioni religiose "diverse dalla cattolica", cit., p. 189. Su questo punto, v. amplius, supra, §§ 2.3 e 2.4.Torna
  55. V. l'art. 14, L. 516/1988, e l'art. 10, L. 517/1988.Torna
  56. Cfr. V. Parlato, Le intese con le confessioni acattoliche, cit., p. 122.Torna
  57. Cfr. F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., pp. 386 s.Torna

Torna all'indice generale

Torna all'indice del capitolo