4.7. Il matrimonio ebraico.

La disciplina del matrimonio, cosi' come prevista dall'art. 14 della legge 101/1989, costituisce forse una delle ipotesi piu' evidenti - e dibattute - di contatto con il testo del nuovo Concordato1, e probabilmente non e' un caso che, come abbiamo gia' avuto modo di vedere nel secondo capitolo2, uno dei punti che l'ebraismo italiano ha sempre considerato di particolare rilevanza, ogni volta che ha avuto occasione di formulare proposte in ordine alla regolamentazione dei propri rapporti con lo Stato, sia costituito proprio dalla tematica del matrimonio, in considerazione del quale e' stata coniata, dalla dottrina di parte ebraica, la formula della piu' volte menzionata "clausola della confessione piu' favorita"3.

In particolare, fin dal 1929 gli ebrei non avevano mancato di esprimere la loro disapprovazione per la disparita' di trattamento - definita "umiliante"4 - che si veniva a realizzare con il Concordato con la Chiesa cattolica, che attribuiva ai cittadini di questa fede la possibilita' di scegliere quale fra le due leggi, tra quella civile e quella canonica, avrebbe regolato tutte le vicende del loro matrimonio, mentre tale opzione non era disponibile per i fedeli delle confessioni di minoranza, che si trovavano cosi' obbligati ad impostare il proprio matrimonio sulla base della legge civile, indipendentemente dalle specifiche convinzioni religiose di ciascuno: la differenza non era di poco conto, atteso che, com'e' noto, il diritto canonico contempla casi piu' ampi di nullita', rispetto a quelli considerati dall'ordinamento civile5.

Proprio per questo, l'ebraismo italiano da allora rivendico' la parita' di trattamento con la Chiesa cattolica, sostenendo che, se lo Stato riconosceva gli effetti civili al matrimonio religioso cattolico, pur lasciando che questo continuasse ad essere regolato - soprattutto per quanto concerne il riconoscimento delle cause d'invalidita' - dalle norme dell'ordinamento canonico, analoga facolta' dovesse venire riconosciuta anche alla confessione ebraica, la cui tradizione giuridica in materia matrimoniale, tra l'altro, poteva vantare una costruzione normativa - per non parlare della plurisecolare evoluzione giurisprudenziale dei tribunali rabbinici - altrettanto solida di quella della Chiesa cattolica6. Anche all'inizio delle trattative per la conclusione dell'intesa con lo Stato, da parte ebraica fu avanzata una doppia richiesta in materia matrimoniale: riconoscimento civile del matrimonio religioso ebraico, e riconoscimento dell'efficacia, nell'ordinamento statuale, delle sentenze di scioglimento del matrimonio pronunciate dai tribunali rabbinici, anche se, nel prosieguo, si sarebbe rinunciato, come vedremo, a questo secondo punto.

Se il legislatore fascista, con la legge sui culti ammessi del 1929, aveva ritenuto opportuno consentire, anche ai fedeli delle confessioni diverse dalla cattolica, la celebrazione delle nozze seguendo il rito della religione di appartenenza - eliminando, cosi', la necessita' della doppia celebrazione, religiosa e civile, che costituiva un corollario dell'introduzione, ad opera del codice civile del 1865, del matrimonio civile come unica forma di matrimonio valido in facie Status7 -, il cosiddetto "matrimonio acattolico", regolato dagli artt. 7-12 della legge 1159/1929 e 25-28 del R.D. 289/1930, era tuttavia ben diverso dal matrimonio concordatario, non solo perche' la sua "religiosita'" era limitata alla forma di celebrazione, mentre rimaneva ferma l'applicazione della legge civile per tutto cio' che riguardava la disciplina sostanziale del rapporto, compreso, naturalmente, l'eventuale giudizio sulla validita' dello stesso8, ma anche perche' la stessa celebrazione religiosa soffriva di una sorta di "contaminazione" tra la sfera piu' propriamente religiosa e quella civile.

Invero, una tappa essenziale dell'iter da seguire in caso di matrimonio religioso al quale si volessero vedere attribuiti gli effetti civili, era costituita dal rilascio al ministro di culto, da parte dell'ufficiale dello stato civile, di una autorizzazione scritta alla celebrazione - in cui dovevano essere indicate le generalita' del ministro, oltre alla data del provvedimento di approvazione della nomina dello stesso da parte dell'autorita' governativa, giusta il disposto dell'art. 3 della legge -, che aveva l'effetto, secondo la prevalente dottrina, di abilitare il ministro di culto ad assistere alla celebrazione di un matrimonio valido agli effetti dello Stato e ad accertarne e documentarne la formazione9; inoltre, nell'ambito della stessa cerimonia religiosa, la legge veniva a regolare minuziosamente la fase del consenso all'unione in matrimonio, prescrivendo, al primo comma dell'art. 9, che fosse compito del ministro di culto "ricevere, alla presenza di due testimoni idonei, la dichiarazione espressa di entrambi gli sposi, l'uno dopo l'altro, di volersi prendere rispettivamente in marito e moglie, osservata la disposizione dell'art. 95 del codice civile [ora art. 108]", con una norma basata, come si puo' constatare, sulle corrispondenti disposizioni regolatrici della celebrazione del matrimonio civile.

Anche sulla base di queste considerazioni e' stato sostenuto, a nostro avviso non senza fondamento, che il ministro di culto in tal modo agisse, "piu' che come organo confessionale, nella veste di soggetto autorizzato dalla competente autorita' statale"10, e che tale matrimonio dovesse essere considerato, nella sostanza, come null'altro che una forma, seppure "speciale", dello stesso matrimonio civile11, alla stessa stregua del matrimonio celebrato dai comandanti delle navi e degli aeromobili, o dalle autorita' consolari all'estero12.

Cio' era tanto piu' vero per gli ebrei, dal momento che il regime di celebrazione c.d. "religiosa" contemplato dalla legge del 1929, proprio per quanto si e' appena visto circa la fase del consenso al matrimonio disciplinata dal primo comma dell'art. 9, si rivelava particolarmente distonico con quello che e' da sempre il rito della celebrazione matrimoniale prescritto dal diritto religioso ebraico, che prevede che la sposa non debba manifestare il proprio consenso apertis verbis, bensi' tacitamente, con l'accettazione dell'anello nuziale offertole dallo sposo, e che il rabbino debba svolgere unicamente la funzione di "supervisore" della cerimonia, affinche' tutto si svolga secondo le regole rituali, oltre ad impartire alcune benedizioni13. Tutto cio' - unito alla considerazione secondo cui, anche se per gli ebrei il matrimonio non costituisce un sacramento, nel matrimonio ebraico esiste nondimeno "una componente religiosa fortissima"14, tanto che la legge religiosa ebraica prescrive una ben determinata forma ad validitatem del matrimonio15, il cui mancato rispetto impone percio' di considerarlo tamquam non esset per l'ordinamento confessionale16 -, spiega a sufficienza i motivi di insoddisfazione, da parte ebraica, per la normativa in parola, che sostanzialmente costringeva gli ebrei osservanti a sottostare comunque ad una duplice celebrazione del matrimonio, la prima secondo il rito ebraico - per soddisfare il precetto religioso -, e la seconda davanti al rabbino come "ministro del culto ammesso", che si trovava cosi' non solo coinvolto, suo malgrado, nella manifestazione stessa del consenso matrimoniale17, ma anche sottoposto all'obbligo di effettuare un controllo circa la insussistenza di eventuali termini o condizioni - giusta il disposto dell'odierno art. 108 cod. civ. -, controllo estraneo alle funzioni del rabbino che erano previste, sul punto, dalla legge ebraica18. Ne' puo' essere sottaciuto come la ripetitivita' provocata dalla reiterata manifestazione del consenso da parte degli sposi - i quali, per quanto appena visto, pur essendosi gia' dichiarati tali nella cerimonia religiosa ebraica, dovevano ripetere, comunque, il detto consenso agli effetti e nei modi previsti dalla legge civile - non giovasse, di certo, "alla serieta' del rito matrimoniale"19.

Con l'apertura della "stagione delle intese", le norme di derivazione bilaterale hanno segnato, nei confronti di tutte le confessioni stipulanti, l'abbandono dei vecchi schemi, sancendo sia la caduta di quelli che venivano considerati i presupposti per la rilevanza civile del vecchio "matrimonio acattolico" - costituiti, segnatamente, dall'approvazione governativa della nomina del ministro di culto, prevista dall'art. 3 della legge sui culti ammessi, e dall'autorizzazione dello stesso alla celebrazione del matrimonio, contemplata nel successivo art. 8 -, sia una maggiore separazione del momento civile da quello piu' propriamente religioso, dal momento che tutte le intese, ad eccezione - come vedremo subito - di quella ebraica, dispongono che la lettura degli articoli del codice civile riguardanti i diritti ed i doveri dei coniugi venga fatta non piu' dal ministro di culto durante la celebrazione, ma dallo stesso ufficiale di stato civile il quale, completata con successo la fase delle pubblicazioni, e' tenuto a rilasciare il nulla osta alla celebrazione del matrimonio, che tra le altre indicazioni deve contenere, per l'appunto, la menzione dell'avvenuta lettura ai nubendi di tali norme di legge20.

Naturalmente, e' appena il caso di dire che il fine del detto nulla osta non ha nulla a che vedere con quelli che costituivano lo scopo e la funzione dell'autorizzazione prevista dalla legge sui culti ammessi21, che, come si e' detto poc'anzi, rendeva il ministro di culto ben piu' simile ad un delegato dello Stato, piuttosto che ad un organo della confessione religiosa; per contro, la funzione del nulla osta e' quella di assicurare le parti in ordine al fatto che il matrimonio che esse stanno per celebrare secondo la legge religiosa della confessione di appartenenza, potra' conseguire una piena efficacia anche nell'ambito dell'ordinamento civile, e allo stesso tempo di certificare, nei confronti dell'ufficiale di stato civile che dovra', nel seguito, procedere alla trascrizione del matrimonio religioso, l'insussistenza di qualsiasi impedimento alla trascrizione stessa22.

Ma l'aspetto della nuova legislazione che, nella nostra opinione, enfatizza di piu' l'abbandono dei vecchi schemi - venendo a porsi, allo stesso tempo, come una garanzia del pluralismo confessionale esistente nell'attuale ordinamento, e come una conferma del principio di incompetenza dello Stato in spiritualibus -, e' costituito dalla non riproposizione, alla quale percio' non possiamo che plaudire, di quello che era il dettato dell'art. 9 della legge del 1929, che, come si e' visto, introduceva nel "cuore" della celebrazione religiosa dei precisi adempimenti del ministro di culto in ordine alla raccolta del consenso degli sposi, che tanto strideva con la tradizione religiosa ebraica da costringere i cittadini ebrei a sottostare ad una sorta di doppia celebrazione: crediamo opportuno insistere su questo punto, in quanto siamo della ferma opinione che solo cosi' si sia potuto restituire integrita' al momento e - soprattutto per quanto riguarda l'intesa ebraica - allo "spessore" religioso della celebrazione, che viene in tal modo lasciata alla totale autonomia della confessione, anche se, come e' stato notato, questo non comporta comunque alcuna modificazione in ordine alla natura della funzione (anche) pubblica esercitata dal ministro di culto, che dovra' pur sempre redigere l'atto di matrimonio e trasmetterlo all'ufficiale di stato civile per la trascrizione, adempiendo in tal modo ad una funzione certificativa23. Ma, anche a prescindere dal fatto che questa redazione dell'atto di matrimonio non intacca minimamente la valenza religiosa della celebrazione matrimoniale, dal momento che il ministro di culto dovra' formare l'atto di matrimonio subito dopo la celebrazione stessa - come prescrivono tutte le intese -, e quindi a rito religioso gia' concluso, e' chiaro che la funzione certificativa svolta dal ministro di culto continua a costituire un momento irrinunciabile di collegamento tra l'ordinamento religioso e quello civile, su cui sarebbe possibile soprassedere solo al prezzo dell'irrilevanza, nell'ordinamento civile, degli atti compiuti nell'ambito dell'ordinamento confessionale24.

Ma, al di la' di questi profili comuni a tutte le intese, larga parte della dottrina ha ritenuto di poter operare, sulla scorta delle disposizioni dei singoli testi pattizi, una sorta di summa divisio tra di essi, assumendo che gli accordi bilaterali fra Stato e confessioni religiose avrebbero introdotto un trattamento differenziato tra il matrimonio "ebraico" da un lato, e quelli delle altre confessioni "con intesa" dall'altro, i quali ultimi, a differenza del primo, verrebbero comunque a configurarsi come semplici forme, seppure "speciali", dello stesso matrimonio civile25.

Tale teorica - proposta nella prima "stagione delle intese" con riferimento alle figure di matrimonio disciplinate dalle intese con i valdesi, gli avventisti e i "pentecostali", ma riferibile, verosimilmente, anche alle successive intese con le altre confessioni cristiane - ha fatto leva, oltre che dall'esame della formulazione letterale delle diverse intese, sulla constatazione secondo la quale, nel caso dei protestanti, si tratterebbe di matrimoni meramente "celebrati", e non di matrimoni "contratti" - e quindi "nati" - nell'ordinamento di queste confessioni, che prescinde da una specifica "teologia" dell'istituto matrimoniale, "concepito come un rapporto etico, non come un momento sacramentale"26, "tant'e' che sembrerebbe da escludersi la possibilita' di celebrare un matrimonio ai soli effetti religiosi"27. Piu' specificamente, si e' osservato che, per le confessioni appartenenti alla tradizione delle Chiese riformate, "il matrimonio e' un contratto stipulato tra i nubenti innanzi a D-o, qualunque sia la forma nuziale che essi decidono di seguire per darne pubblica certificazione con la conseguente irrilevanza della forma certificativa sull'essenza del matrimonio"28, mentre - come abbiamo gia' visto -, per l'ebraismo la forma di celebrazione prescritta e' determinante per una valida costituzione del matrimonio nell'ambito dell'ordinamento confessionale.

Secondo la disposizione del primo comma dell'art. 14 della legge 101/1989, lo Stato si e' impegnato a riconoscere gli effetti civili ai matrimoni celebrati in Italia "secondo il rito ebraico davanti ad uno dei ministri di culto di cui all'articolo 3 che abbia la cittadinanza italiana, a condizione che l'atto relativo sia trascritto nei registri dello stato civile, previe pubblicazioni nella casa comunale". La disposizione, che parla espressamente di matrimonio celebrato "secondo il rito ebraico", sembra voler mettere in rilievo il carattere religioso della celebrazione29, e non c'e' dubbio che essa sia stata formulata appositamente per assicurare il rispetto delle specificita' che l'ordinamento ebraico presenta in materia di celebrazione della liturgia, che sono gia' state accennate poc'anzi: e', questo, un altro modo per assicurare la concreta fruibilita', ad ogni ebreo, del proprio diritto alla diversita', che anche in materia matrimoniale trova cosi', grazie alla normativa bilateralmente convenuta, un'occasione di pieno sviluppo.

Ma secondo alcuni stuD-osi, proprio questo riferimento al "rito ebraico", pur non facendo conseguire un diretto effetto nella sfera civilistica ai precetti puramente religiosi30, costituisce una testimonianza preziosa del riconoscimento, ex parte Status, di un vero e proprio "matrimonio ebraico"31, che presenta, tra l'altro, non pochi punti di contatto - almeno sotto il profilo liturgico-celebrativo -, con il matrimonio concordatario; punti di contatto che emergono, del resto, anche dall'esame della norma del nono comma dell'art. 14, ove si ribadisce "la facolta' di celebrare e sciogliere matrimoni religiosi, senza alcun effetto o rilevanza per la legge civile, secondo la legge e la tradizione ebraiche", cosi' che sembra legittimo concludere, secondo la dottrina de qua, di trovarsi di fronte al riconoscimento di un vero e proprio "matrimonio religioso disciplinato dalle norme statutarie della confessione e non gia' di fronte ad una "forma speciale" di celebrazione del matrimonio civile"32: insomma, in questo modo lo Stato avrebbe preso atto dell'esistenza di un autonomo matrimonio religioso ebraico, che nasce e vive nell'ordinamento della confessione e che, a certe condizioni (pubblicazioni e successiva trascrizione), puo' avere anche effetti civili, cosi' che nell'ipotesi di divorzio pronunciato da un tribunale dello Stato, la formula dovra' essere - come per il matrimonio concordatario -, quella della cessazione degli effetti civili ai sensi dell'art. 2 della legge 1 dicembre 1970, n. 89833, mentre per le altre confessioni si trattera' di dichiarare lo scioglimento del vincolo civile, ai sensi dell'art. 1 della citata legge34.

Sulla scia di quest'impostazione, ma dilatando la portata della norma dell'intesa, da parte ebraica si e' sostenuto che la disposizione del primo comma dell'art. 14, con il riferimento al "rito ebraico" si configuri come una norma di rinvio formale al diritto ebraico vigente al momento della celebrazione, con la conseguenza che il conseguimento dell'efficacia civile del matrimonio risulterebbe condizionata alla puntuale osservanza delle statuizioni confessionali relative alla celebrazione matrimoniale35, mentre altri - sempre basandosi sul dato positivo del rinvio dell'intesa al "rito ebraico" -, ha sostenuto che finanche la disciplina delle nullita' e degli impedimenti sia oggi, in virtu' dell'art. 14 dell'intesa ebraica, rimessa alla competenza del diritto confessionale36.

Non ci sembra, tuttavia, che l'intero art. 14 della legge 101/1989 autorizzi simili deduzioni. Come e' stato opportunamente sottolineato, infatti, l'intesa e' chiara nel delimitare l'area di influenza reciproca dei due ordinamenti, sebbene nell'ambito di una cerimonia che ha valore costitutivo del vincolo matrimoniale per entrambi. In particolare, se dall'intesa risulta l'esistenza di un "matrimonio ebraico", peraltro e' anche esplicito che esso, per conseguire effetti nella sfera civile, dovra' essere conforme alle leggi civili: come risulta dal terzo comma dell'art. 14, infatti, la disciplina degli impedimenti e' solo quella della legislazione statale, dal momento che l'ufficiale di stato civile, prima di rilasciare il nulla osta, dovra' accertarsi che nulla si opponga alla celebrazione del matrimonio secondo le vigenti norme di legge37; certo, il rabbino potra' rifiutarsi di celebrare un matrimonio in presenza di un impedimento previsto dalla legge ebraica, ma se tale matrimonio, per avventura, dovesse venire celebrato - e trascritto -, esso sara' comunque valido per lo Stato. Allo stesso modo, dal quarto comma dello stesso articolo risulta l'irrilevanza per lo Stato dei doveri dei coniugi derivanti dai precetti religiosi38: infatti, per lo Stato i diritti e i doveri dei coniugi sono solo quelli derivanti dagli articoli del codice civile di cui il rabbino da' lettura agli sposi, mentre la previsione della possibilita' di includere le dichiarazioni dei coniugi nell'atto di matrimonio dimostra, una volta di piu', che solo le pattuizioni espresse in quell'atto avranno rilevanza per la legge civile, con l'esclusione, quindi, di ogni valore alla Ketubbah - documento che, nel rito ebraico, contiene gli impegni del marito verso la moglie -, che la dottrina ebraica ha invece considerato di rilevanza anche civile39. In sostanza, l'unico collegamento del diritto confessionale con quello dello Stato ai fini di una possibile invalidita' del matrimonio agli effetti civili pare essere, come risulta dalla stessa intesa, la qualita' di ministro di culto del celebrante40.

Anche in forza delle succitate considerazioni, parte degli stuD-osi ha concluso che, piu' che una summa divisio tra il matrimonio "ebraico" e quello delle altre confessioni, le intese abbiano invece delineato un modello sostanzialmente unitario di matrimonio, caratterizzato in tutti i casi semplicemente da una piu' ampia autonomia confessionale e considerando le asserite peculiarita' del matrimonio "ebraico" delle semplici "enfatizzazioni dottrinali" di elementi indubbiamente presenti, ma con un significato "piu' semplice e lineare"41.

Il secondo comma dell'art. 14 della legge 101/1989 prevede che, per poter celebrare il matrimonio secondo il rito ebraico, dando a questo effetti civili, i nubendi debbano, innanzitutto, informare l'ufficiale di stato civile, che avra' cura di provvedere alle necessarie pubblicazioni presso la casa comunale, rilasciando - dopo avere accertato che, "secondo le vigenti norme di legge", nulla si oppone alle celebrazione del matrimonio -, il nulla osta di cui si e' gia' avuto modo di parlare, in doppio originale, secondo la disposizione del comma seguente dello stesso articolo.

Il quarto comma dell'art. 14 dispone che, "subito dopo la celebrazione" del matrimonio, il ministro di culto debba rendere edotti gli sposi circa gli effetti civili del loro matrimonio, "dando lettura degli articoli del codice civile riguardanti i diritti e i doveri dei coniugi": la disposizione presenta un singolare "ricalco" del testo concordatario42, tanto che e' stato affermato che essa "tende palesemente ad assimilare il matrimonio ebraico a quello concordatario"43 e, come si e' gia' visto, evidenzia una differenza con le intese delle altre confessioni, per le quali la lettura degli articoli del codice civile sui diritti e doveri scaturenti dal matrimonio deve essere fatta dall'ufficiale di stato civile. Allo stesso modo, le altre intese non prevedono che i coniugi possano "altresi' rendere le dichiarazioni che la legge consente siano rese nell'atto di matrimonio" - segnatamente, le dichiarazioni inerenti al regime patrimoniale della famiglia e al riconoscimento o alla legittimazione di figli naturali44 -, com'e' invece espressamente affermato dall'intesa ebraica, anche se e' da dire che la portata di una simile omissione negli altri testi pattizi non e' stata oggetto di interpretazioni univoche da parte della dottrina che si e' cimentata con l'esegesi della norma: infatti, se parte degli stuD-osi - muovendo dalla scontata considerazione secondo cui la formulazione letterale non e' decisiva -, ha ritenuto che non si puo' escludere che siano possibili dichiarazioni dei coniugi anche in altri tipi di celebrazione nuziale45, altri ha invece sostenuto l'opposto46, mentre una posizione intermedia e' occupata da coloro i quali hanno opinato che sarebbe possibile includere nell'atto di matrimonio soltanto la dichiarazione relativa al regime patrimoniale, mentre resterebbe preclusa, nel silenzio della legge, quella relativa al riconoscimento del figlio naturale47.

Ai sensi del quinto comma dell'art. 14, subito dopo la celebrazione del matrimonio, il rabbino che ha officiato il rito deve provvedere alla formazione, in duplice originale, dell'atto di matrimonio, avendo cura di allegare, a ciascun originale, il nulla osta precedentemente rilasciato - anch'esso in duplice originale - dall'ufficiale di stato civile che ha proceduto alle pubblicazioni. In ogni caso, prosegue la norma, dall'atto di matrimonio dovranno risultare le generalita' del rabbino, la menzione dell'avvenuta lettura, da parte dello stesso rabbino, delle norme riguardanti i diritti e i doveri derivanti dal matrimonio, e le eventuali dichiarazioni rilasciate dai coniugi ai sensi del comma precedente, oltre alle indicazioni previste dalla legge civile. La dottrina piu' recente48 ha sostenuto, probabilmente non senza fondamento, che queste indicazioni previste dalla legge civile non possono essere che quelle previste dall'art. 126 ord. stato civ., tra le quali assumerebbe in questo caso un particolare rilievo "la dichiarazione degli sposi di volersi prendere rispettivamente in marito e in moglie": non va dimenticato, infatti, che la specificazione dei contenuti dell'atto di matrimonio e' peculiare all'intesa ebraica, e, giusta quanto si e' avuto modo di dire sin qui, se l'esplicito riconoscimento del "rito ebraico" di celebrazione del matrimonio induce a ritenere che oggi non sia piu' imposto al rabbino, come invece accadeva con la legge del 1929, di ricevere la dichiarazione espressa di entrambi gli sposi, ciononostante non e' venuta meno l'esigenza, irrinunciabile ex parte Status - nella prospettiva del riconoscimento all'unione degli effetti civili - di assicurarsi in qualche modo circa la effettivita' della sussistenza del consenso dei nubendi; tale "garanzia" sarebbe in tal caso rappresentata, quindi, dalla certificazione dell'avvenuta manifestazione del consenso, consacrata nell'atto di matrimonio compilato subito dopo la celebrazione dal rabbino, che si fa, in tal modo, garante di tale consenso di fronte allo Stato.

Similmente alle altre intese, il sesto comma dell'art. 14 dell'intesa ebraica prescrive che, entro cinque giorni dalla celebrazione, il rabbino debba trasmettere un originale dell'atto di matrimonio - insieme al relativo nulla osta - all'ufficiale di stato civile del comune dove e' avvenuta la celebrazione, il quale, una volta verificata l'autenticita' del nulla osta e la regolarita' dell'atto, ne cura la trascrizione nei registri dello stato civile entro ventiquattro ore dalla ricezione, dandone notizia al ministro di culto (comma 7).

Tutte le intese prescrivono che gli effetti civili della trascrizione dell'atto di matrimonio retroagiscano al momento della celebrazione dello stesso: e su questa linea, l'art. 14 della legge 101/1989 prevede che il matrimonio abbia effetti civili dal momento della celebrazione, "anche se l'ufficiale dello stato civile che ha ricevuto l'atto abbia omesso di effettuarne la trascrizione nel termine prescritto". In proposito va fatta una precisazione che riteniamo assai pregnante. Con riguardo alla generalita' delle intese, infatti, e' stato scritto in dottrina che "e' anche ammessa la trascrizione tardiva, perche' il matrimonio produce i suoi effetti comunque dal giorno della celebrazione"49: qui piu' che mai e' necessario intendersi sul significato da attribuire ai termini, dal momento che se per "trascrizione tardiva" si intende semplicemente la necessita' che la trascrizione produca effetti ex tunc, ci si puo' ritenere d'accordo con la citata dottrina, mentre se con l'espressione ci si vuole riferire, piu' specificamente, all'istituto della trascrizione tardiva cosi' come configurata ancora oggi dal nuovo Concordato, allora dovremmo ritenere di essere in presenza di un fraitendimento. Invero, se l'ipotesi di "trascrizione con effetti ex tunc" e' prevista, oltre che nel nuovo Accordo con la Santa Sede, anche nelle intese con le confessioni diverse dalla cattolica, la cosiddetta "trascrizione tardiva" e' invece, come e' stato sottolineato, "un istituto tipico del diritto concordatario, e andrebbe piu' esattamente definita "trascrizione a richiesta degli sposi""50, dal momento che, in questo caso, la trascrizione tempestiva non e' stata impedita da un "vizio" nel normale iter, ma non e' stata voluta per espresso intendimento degli sposi, ai quali l'ordinamento in questo caso consente comunque, in prosieguo di tempo, la possibilita' di mutare opinione, trascrivendo "tardivamente" - ma anche in questo caso con effetti retroattivi - il matrimonio religioso a suo tempo celebrato51.

Le considerazioni suesposte non sono certo sfuggite alla maggior parte della dottrina, anche se alcuni stuD-osi ne hanno tratto motivo per rivendicare un'applicazione analogica della norma concordataria sulla trascrizione tardiva anche ai matrimoni delle confessioni religiose diverse dalla cattolica52: ma due ordini di considerazioni, di ordine formale e sostanziale - le prime applicabili a tutte le confessioni, le seconde specificamente a protestanti ed ebrei - si oppongono all'accoglimento di una simile teorica.

In primo luogo, non puo' essere messo in dubbio che l'istituto della trascrizione tardiva del matrimonio configurato dagli Accordi concordatari dia vita ad una sorta di "regime speciale" del matrimonio canonico, con la conseguente caratterizzazione della disposizione dell'ultimo comma dell'art. 8 del nuovo Concordato come norma eccezionale, e percio' stesso insuscettibile di una sua applicazione analogica53; inoltre - e veniamo al secondo ordine di considerazioni -, come si e' gia' visto, la tradizione delle Chiese riformate prescinde da una vera e propria "teologia" del matrimonio, non prescrivendo una determinata forma di celebrazione ad validitatem, tanto che non c'e' qui matrimonio che non sia destinato a conseguire effetti civili, o meglio, sembrerebbe da escludere la possibilita' di celebrare un matrimonio ai fini puramente religiosi, per cui mancherebbe lo scopo, per queste confessioni, di ricorrere alla trascrizione tardiva54.

La stessa cosa non vale, ovviamente, per l'ebraismo, per quanto si e' venuto dicendo sino ad ora; ma qui soccorre un'altra argomentazione, anch'essa di grande momento: infatti, nella bozza d'intesa del 1977 era effettivamente prevista la trascrizione tardiva del matrimonio religioso, e la scomparsa di tale istituto tanto nei successivi progetti, come nel testo definitivo, non puo' allora apparire come una lacuna del testo legislativo - suscettibile percio' di essere colmata per mezzo del ricorso ad una interpretazione analogica della norma concordataria -, ma, piuttosto, deve essere riguardata "nell'ottica di una ben piu' significativa consapevolezza ormai acquisita dal legislatore"55.

Arriviamo cosi' all'ultimo comma dell'art. 14, che, lo si e' gia' visto, fa salva la facolta' di celebrare e sciogliere matrimoni religiosi senza alcun effetto o rilevanza civile. Come riferisce uno dei piu' autorevoli ed accreditati esponenti della dottrina ebraica, protagonista in prima persona delle trattative che portarono alla firma dell'intesa, la disposizione fu inserita dietro specifica richiesta della stessa parte ebraica, "che aveva rinunciato all'originale richiesta di massima del riconoscimento della giurisdizione rabbinica in tema di pronuncia di divorzi di matrimoni ebraici con effetti civili"56, una richiesta che aveva portato avanti - come abbiamo gia' avuto modo di vedere -, sin dalla stipulazione del Concordato lateranense del 1929, ma che in ultimo, proprio quando lo strumento pattizio sembrava cosi' vicino, ha deciso di abbandonare.

Non va comunque sottaciuto come, talvolta, la giurisprudenza sia giunta, con l'utilizzo di argomentazioni complesse e attraversando un itinerario ermeneutico certamente possibile, ma non scevro da ostacoli interpretativi, a derogare in modo anche sostanziale alla disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, conferendo rilevanza civile - pur se in presenza di particolari presupposti - alle pronunce di scioglimento di matrimoni "ebraici" pronunciate dai tribunali rabbinici italiani.

Un caso dibattuto, che ha diviso la dottrina, e' stato quello del Tribunale di Milano57 che, nel 1991, ha "riconosciuto" una pronuncia di divorzio del tribunale rabbinico di Roma, relativa ad un matrimonio "ebraico" tra una donna ebrea di cittadinanza italiana ed un ebreo con la doppia cittadinanza italiana ed israeliana - e quindi considerato "straniero" dal diritto italiano58 -, il quale aveva chiesto ed ottenuto il "divorzio" dall'autorita' competente secondo la legge israeliana ed il proprio ordinamento religioso, per l'appunto il tribunale rabbinico di Roma, conseguendo cosi' nuovamente lo stato di libero; essendo la moglie cittadina italiana, essa era percio' ricorsa al Tribunale civile di Milano, desiderando riacquistare lo stato libero secondo la legge italiana.

Dalla motivazione della sentenza, risulta che i giudici milanesi hanno considerato la pronuncia dell'autorita' religiosa di Roma come un mero presupposto di fatto per l'applicazione dell'art. 3, n. 2, lett. e) della legge 898/1970, in base al cui disposto sia lo scioglimento che la cessazione degli effetti civili del matrimonio possono essere domandati da uno dei due coniugi nel caso in cui l'altro coniuge, cittadino straniero, abbia ottenuto all'estero l'annullamento o lo scioglimento del matrimonio, o comunque abbia contratto all'estero un nuovo matrimonio. Evidentemente, il Tribunale ha ritenuto di non seguire la procedura di delibazione delle sentenze straniere che, prima della legge di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato59, era prevista dagli artt. 796 ss. cod. proc. civ., a causa della possibile contrarieta' all'ordine pubblico italiano delle sentenze di "divorzio" pronunciate dai tribunali rabbinici, dato il carattere unilaterale dell'atto di "ripuD-o" ebraico60; invece, il procedimento di "riconoscimento" di cui all'art. 3, n. 2, lett. e) della legge sul divorzio, permetterebbe di considerare le pronunce dei tribunali rabbinici non come atti in senso proprio, bensi' come semplici presupposti di fatto - dai quali discende lo stato libero di uno dei due coniugi per il proprio ordinamento -, che, in quanto tali, non sarebbero sindacabili sotto il profilo della loro conformita' all'ordine pubblico dello Stato61.

Ma quello che suscita, perlomeno, qualche motivo di perplessita', e' l'aspetto che si pone, in un certo qual modo, come un antecedente logico-esegetico per l'applicazione della citata norma della disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio: infatti - non diversamente, del resto, dal procedimento di delibazione delle sentenze straniere previsto dal codice di procedura civile -, la disposizione e' esplicita nell'affermare la propria applicabilita' nel caso del coniuge cittadino straniero che abbia ottenuto - come abbiamo gia' sottolineato - all'estero l'annullamento o lo scioglimento del vincolo matrimoniale; i giudici milanesi hanno cosi' adottato un'interpretazione estensiva dell'espressione "all'estero", opinando che, nella sostanza, l'espressione "ottenuto all'estero" debba considerarsi un sinonimo di "ottenuto secondo un ordinamento estero"62, sul presupposto che quanto e' avvenuto innanzi alla corte religiosa di Roma abbia piena e diretta efficacia nell'ordinamento israeliano.

Ora, da un lato si puo' condividere, almeno in linea di principio, lo spirito che ha animato i giudici del Tribunale milanese, che hanno optato per una tale soluzione - peraltro, basata su precise fasi argomentative - principalmente per fare in modo "che anche il cittadino italiano potesse sciogliersi da un legame matrimoniale da cui il coniuge straniero gia' si era liberato e far si', pertanto, [di] garantire la pari uguaglianza morale e giuridica, anche in caso di coniugi di diversa cittadinanza"63; nondimeno non possiamo fare a meno di rilevare come, nel caso concreto, si sia cosi' giunti a derogare ai princi'pi fondamentali della nostra attuale disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, dal momento che, come si e' visto, il "divorzio religioso" a cui e' stata "riconosciuta" efficacia civile risulta essere stato pronunciato non in base ai motivi di divorzio previsti - e regolati - dalla legge civile, bensi' in base a quelli contemplati dall'ordinamento religioso ebraico.

Ha cosi' preso vita un singolare sistema di "concorso" giurisdizionale fra il diritto statuale e quello confessionale in materia di scioglimento del vincolo derivante dal matrimonio religioso con effetti civili64, seppure azionabile solo in casi particolari, tanto piu' singolare se poniamo mente al dato - incontestabile, come abbiamo visto - che il riconoscimento della giurisdizione dei tribunali rabbinici e' stato escluso volontariamente dalla stessa intesa ebraica. Resta da vedere se questa linea interpretativa si trasformera', nel futuro, in una giurisprudenza consolidata, o se si assistera' ad un revirement giurisprudenziale, piu' in linea con il dettato dell'attuale diritto positivo.

Note:

  1. Cfr. R. Botta, L'intesa con gli israeliti, cit., p. 106.Torna
  2. In particolare, v. supra, §§ 2.2 e 2.3.Torna
  3. Cfr. G. Fubini, Verso l'intesa fra lo Stato e l'ebraismo italiano, cit., specialmente pp. 358 s., e G. Long, Le confessioni religiose "diverse dalla cattolica", cit., p. 157.Torna
  4. V. Tedeschi, Il matrimonio, cit., p. 268.Torna
  5. Cfr., in particolare, G. Fubini, Considerazioni "de iure condendo" in tema di matrimonio e di culti acattolici, cit., c. 155.Torna
  6. Cfr. G. Long, Le confessioni religiose "diverse dalla cattolica", cit., p. 157, e G. Fubini, Considerazioni "de iure condendo" in tema di matrimonio e di culti acattolici, cit., c. 155.Torna
  7. Su questo punto, amplius, supra, § 2.1.Torna
  8. Cfr. P. Moneta, Matrimonio religioso e ordinamento civile, Torino, 1996, p. 168.Torna
  9. Cfr. F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., p. 471.Torna
  10. P. Moneta, Matrimonio religioso e ordinamento civile, cit., p. 176.Torna
  11. Cfr. F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., p.470, e R. Botta, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 193. Sostanzialmente nello stesso senso, seppure meno recentemente, si e' pronunciato anche M. Petroncelli, Diritto ecclesiastico, cit., p. 287, secondo il quale si puo' ritenere che " le disposizioni speciali [della legge 1159/1929] debbano oggi essere ritenute come integranti quelle civili, per cui il matrimonio acattolico, a differenza di quello canonico trascritto, e' essenzialmente un matrimonio civile, e produce dal giorno della celebrazione gli stessi effetti del matrimonio celebrato davanti all'ufficiale dello stato civile, quando siano osservate particolari disposizioni". Contra, nel senso dell'appartenenza di questo matrimonio ad una sorta di tertium genus, distinto, quindi, sia da quello civile che da quello canonico, cfr. A. C. Jemolo, Lezioni di diritto ecclesiastico, cit., p. 570; F. Onida, voce Matrimonio (diritto ecclesiastico). b) Matrimonio degli acattolici, in Enc. dir., XXV, Milano, 1975, p. 876, e P. Gismondi, Lezioni di diritto ecclesiastico, cit., p 177.Torna
  12. Cfr. F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., p. 470.Torna
  13. Cfr., in proposito, V. Tedeschi, Il matrimonio, cit., pp. 270 s., e A. Albisetti, Il matrimonio dei culti acattolici, in Aa. Vv., Il diritto di famiglia, a cura di G. Bonilini - G. Cattaneo, Torino, 1997, I, p. 299.Torna
  14. Cosi' V. Tedeschi, Il matrimonio, cit., p. 269.Torna
  15. Cfr. P. Lillo, Brevi note sul regime dei matrimoni "ebraico" e "islamico" in Italia, in DE, 1994, I, p. 518.Torna
  16. Cfr. V. Parlato, Le intese con le confessioni acattoliche, cit., p. 129.Torna
  17. Cfr. P. Moneta, Matrimonio religioso e ordinamento civile, cit., p. 185.Torna
  18. Cfr. V. Tedeschi, Il matrimonio, cit., p. 267.Torna
  19. Cosi', ancora V. Tedeschi, Il matrimonio, cit., p. 267.Torna
  20. V. l'art. 11, comma 3, L. 449/1984; l'art. 18, comma 3, L. 516/1988; l'art. 12, comma 4, L. 517/1988; l'art. 10, comma 3, L. 116/1995; l'art. 13, comma 4, L. 520/1995, e l'art. 6, comma 4, dell'intesa con i testimoni di Geova.Torna
  21. Cfr. C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 439.Torna
  22. In questo senso, cfr. P. Moneta, Matrimonio religioso e ordinamento civile, cit., pp. 183 s.Torna
  23. Cfr. A. Albisetti, Il matrimonio dei culti acattolici, cit., pp. 296 s.Torna
  24. Cfr. G. Long, Le confessioni religiose "diverse dalla cattolica", cit., p. 192.Torna
  25. In questo senso, cfr. V. Parlato, Le intese con le confessioni acattoliche, cit., pp. 131 s.; G. Long, Le confessioni religiose "diverse dalla cattolica", cit., p. 198, e A. Albisetti, Il matrimonio dei culti acattolici, cit., p. 300.Torna
  26. Cosi', con particolare riferimento all'ordinamento valdese, ma con una considerazione che parrebbe applicabile a tutte le Chiese protestanti, S. Lariccia, L'attuazione dell'art. 8, 3° comma della Costituzione: le intese tra lo Stato italiano e le chiese rappresentate dalla Tavola valdese, in DE, 1984, I, p. 486.Torna
  27. A. Albisetti, Il matrimonio dei culti acattolici, cit., p. 298.Torna
  28. Cosi', V. Parlato, Le intese con le confessioni acattoliche, cit., p. 129.Torna
  29. Cfr. V. Tedeschi, Il matrimonio, cit., p. 269.Torna
  30. Cfr. G. Long, Le confessioni religiose "diverse dalla cattolica", cit., p. 199.Torna
  31. In questo senso, cfr. A. Albisetti, I matrimoni degli acattolici: gli ebrei, in DE, 1990, I, p. 462.Torna
  32. Cosi', R. Botta, L'intesa con gli israeliti, cit., p. 107.Torna
  33. In G.U., 3 dicembre 1970, n. 306.Torna
  34. Cfr. G. Long, Le confessioni religiose "diverse dalla cattolica", cit., p. 198, e G. Fubini, Il diritto ebraico, cit., pp. 120 s.Torna
  35. In questo senso, cfr. V. Tedeschi, Il matrimonio, cit., p. 266.Torna
  36. Cfr. G. Fubini, Il diritto ebraico, cit., p. 118.Torna
  37. Cfr. P. Moneta, Matrimonio religioso e ordinamento civile, cit., p. 187, e F. Uccella, Sul matrimonio "acattolico" degli appartenenti alle confessioni che hanno stipulato le intese, in Giur. it., 1989, IV, c. 422. Nello stesso senso, anche G. Long, Le confessioni religiose "diverse dalla cattolica", cit., p. 199.Torna
  38. Cfr. P. Lillo, Brevi note sul regime dei matrimoni "ebraico" e "islamico" in Italia, cit., p. 518.Torna
  39. Cfr. ancora G. Fubini, Il diritto ebraico, cit., p. 118.Torna
  40. Cfr. G. Long, Le confessioni religiose "diverse dalla cattolica", cit., p. 199, il quale precisa che, tuttavia, questo requisito va valutato alla stregua degli ordinamenti confessionali anche nel caso delle altre intese.Torna
  41. Cosi', C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 437. Nello stesso senso, cfr. anche P. Moneta, Matrimonio religioso e ordinamento civile, cit., pp. 180 s.Torna
  42. Cfr. R. Botta, L'intesa con gli israeliti, cit., p. 107.Torna
  43. Cosi' A. Albisetti, Il matrimonio dei culti acattolici, cit., p. 299.Torna
  44. Cfr. P. Moneta, Matrimonio religioso e ordinamento civile, cit., p. 174.Torna
  45. In questo senso, cfr. F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., p. 475, e P. Moneta, Matrimonio religioso e ordinamento civile, cit., p. 188.Torna
  46. Cfr. P. Floris, Autonomia confessionale. Princi'pi limite fondamentali e ordine pubblico, Napoli, 1992, p. 234.Torna
  47. Di quest'avviso e' G. Long, Le confessioni religiose "diverse dalla cattolica", cit., p. 193, che argomenta dal fatto che tutte le intese parlano di "atto di matrimonio", e dalla formulazione del secondo comma dell'art. 162 cod. civ., secondo la quale dell'atto di matrimonio fa sicuramente parte la dichiarazione dei coniugi circa il regime patrimoniale della famiglia; per contro, l'art. 254 cod. civ., sulla dichiarazione di riconoscimento di figlio naturale, non cita espressamente l'atto di matrimonio tra i documenti idonei a tale dichiarazione.Torna
  48. Cfr. P. Moneta, Matrimonio religioso e ordinamento civile, cit., p. 185.Torna
  49. Cosi' G. Saraceni - F. Uccella, voce Matrimonio. IV) Matrimonio delle confessioni religiose diverse dalla cattolica, in Enc. giur., XIX, Roma, 1990, p. 8.Torna
  50. Cosi' G. Long, Le confessioni religiose "diverse dalla cattolica", cit., p. 194.Torna
  51. Cfr. C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 441.Torna
  52. In questo senso, cfr. F. Onida, voce Matrimonio, cit., p. 874.Torna
  53. Cfr. A. Albisetti, I matrimoni degli acattolici: gli ebrei, cit., p. 465.Torna
  54. Cfr. A. Albisetti, Il matrimonio dei culti acattolici, cit., p. 298.Torna
  55. A. Albisetti, I matrimoni degli acattolici: gli ebrei, cit., p. 467.Torna
  56. Cosi', G. Sacerdoti, Il divorzio Ebraico Israeliano di fronte ai giudici italiani, in QDPE, 1991 92/1, p. 438, in nota. Cfr. anche G. Fubini, Il diritto ebraico, cit., p. 121, e R Bertolino, ebraismo italiano e l'intesa con lo Stato, cit., p. 591.Torna
  57. Trib. Milano, 5 ottobre 1991, in RDIPP, 1992, pp. 123 ss.Torna
  58. Sull'accoglimento di questa soluzione in caso di doppia cittadinanza, cfr. C. Rimini, Il ripuD-o innanzi ad un tribunale rabbinico italiano e la sua rilevanza come divorzio ottenuto all'estero, in RDIPP, 1992, p. 56, in nota, e la bibliografia ivi citata.Torna
  59. La riforma e' stata attuata con L. 31 maggio 1995, n. 218 (in G.U., 3 giugno 1995, n. 128, suppl. ord.), che ha abrogato gli artt. 796 805 cod. proc. civ.Torna
  60. In proposito, occorre tuttavia precisare, come e' stato sottolineato dalla piu' accreditata dottrina ebraica, che "il ripuD-o della moglie da parte del marito, per adulterio o altre cause, riconosciuto nella Bibbia, si e' trasformato sin dal meD-o evo per effetto della giurisprudenza rabbinica in sostanziale divorzio, su base consensuale o per cause determinate, pronunciato dai tribunali rabbinici", per cui sarebbe oggi "erroneo e fuorviante definire il divorzio ebraico contemporaneo come ripuD-o" (cosi' G. Sacerdoti, Il divorzio Ebraico Israeliano di fronte ai giudici italiani, cit., pp. 435 s.), tanto che non sono mancate pronunce favorevoli della giurisprudenza in merito alla delibazione delle sentenze di divorzio pronunciate dai tribunali rabbinici stranieri: si veda App. Milano, sent. 19 maggio 1992, n. 892, in QDPE, 1993/3, pp. 890 ss.Torna
  61. Cfr. P. Lillo, Brevi note sul regime dei matrimoni "ebraico" e "islamico" in Italia, cit., p. 523, e C. Rimini, Il ripuD-o innanzi ad un tribunale rabbinico italiano, cit., pp. 60 s.Torna
  62. Cfr. G. Sacerdoti, Il divorzio Ebraico Israeliano di fronte ai giudici italiani, cit., pp. 435 s., il quale peraltro ritiene fondata e pienamente giustificata tale interpretazione estensiva, basata "su considerazioni di ordine logico e teleologico".Torna
  63. Cosi' M. Finocchiaro, Occasio e ratio legis: a proposito dell'art. 3 n. 2 lett. e) l. 1° dicembre 1970 n. 898, in Giur. mer., 1991, I, p. 1005.Torna
  64. Cfr. P. Lillo, Brevi note sul regime dei matrimoni "ebraico" e "islamico" in Italia, cit., p. 526.Torna

Torna all'indice generale

Torna all'indice del capitolo