4.8. Il nuovo regime giuridico degli edifici di culto. I beni culturali ed ambientali.

Gli artt. 15 e 28 della legge 101/1989, contenenti disposizioni in materia di edifici di culto, costituiscono un ulteriore esempio di norme deputate alla salvaguardia della specifica identita' religiosa dell'ebraismo1. Come e' stato notato, infatti, se e' vero che l'aspetto piu' ovvio del diritto di liberta' religiosa consiste in primis nella possibilita', per i cives-fideles, di esercitare liberamente il proprio culto, a monte di una piena tutela di tale diritto si porra', inevitabilmente, la necessita' di garantire loro un adeguato numero di edifici stabilmente destinati alla celebrazione dei riti della confessione di appartenenza2.

Nel quadro della funzione dell'istituto dell'intesa - che, come abbiamo gia' sottolineato3, va considerata come uno strumento deputato ad assicurare la piu' completa fruizione del diritto di liberta' religiosa tanto da parte delle confessioni come istituzioni collettive, come da parte dei singoli cives-fideles - non potevano mancare, allora, nell'intesa ebraica cosi' come negli altri testi pattizi4, disposizioni concernenti la materia dell'edilizia di culto, anche perche' nel passato gli edifici di culto delle confessioni religiose diverse dalla cattolica, in quanto beni patrimoniali, sono stati disciplinati integralmente dal diritto comune, a fronte delle particolari condizioni di cui godevano, invece, i soli edifici di culto della Chiesa cattolica, che erano garantiti da disposizioni dettate ad hoc, sia dal Concordato che dal codice civile5.

Anche su questo punto, l'intesa ebraica si discosta dalle corrispondenti previsioni delle altre intese6 - che sono tra di loro sostanzialmente allineate -, prevedendo una regolamentazione della materia degli edifici di culto che se, sotto alcuni aspetti, appare ricalcata su quella della Chiesa cattolica - lasciando dunque trasparire, ancora una volta, quell'ispirazione alla "clausola della confessione piu' favorita" che ha animato le trattative per giungere alla firma dell'intesa7 -, peraltro, in un certo senso va addirittura oltre, atteso che, come subito vedremo, le disposizioni sugli edifici di culto della confessione ebraica appaiono ictu oculi piu' esplicite, e piu' "garantiste", di quelle sugli stessi edifici di culto cattolici.

Le peculiarita' della normativa ebraica emergono gia' dall'esame del primo comma dell'art. 15 della legge 101/1989, secondo il cui disposto gli edifici destinati all'esercizio pubblico del culto ebraico, anche se appartenenti a soggetti privati, "non possono essere sottratti alla loro destinazione, neppure per effetto di alienazione, fino a che la destinazione stessa non sia cessata con il consenso della Comunita' competente o dell'Unione".

Com'e' agevole rilevare, la disposizione riproduce quasi pedissequamente la lettera del secondo comma dell'art. 831 cod. civ., che istituisce un vincolo di destinazione nei confronti degli edifici destinati al culto pubblico cattolico, talche' essi, anche se appartenenti a privati, "non possono essere sottratti alla loro destinazione neppure per effetto di alienazione, fino a che la destinazione stessa non sia cessata in conformita' delle leggi che li riguardano".

Per comprendere a fondo i motivi di analogia, e di novita', dell'art. 15, comma 1, della legge 101/1989, con la disposizione di cui al capoverso dell'art. 831 cod. civ., e' necessaria una breve digressione circa il significato e la portata di quest'ultima norma.

Certamente, nel 1942 si era cercato di stabilire una disciplina che tutelasse in modo specifico la destinazione dei soli edifici serventi il culto cattolico, prescindendo dalla proprieta' degli stessi, cosi' che, mentre gli edifici di culto della confessione ebraica, non dissimilmente da quelli delle Chiese protestanti - a causa del clima di sfavore verso tutte le confessioni religiose di minoranza, unitamente alla considerazione che i loro edifici di culto servivano una minima parte della popolazione italiana8 -, continuavano ad essere sottoposti alla normativa "comune", nei confronti della Chiesa cattolica veniva confermato il principio - gia' contenuto nella legislazione precedente9 - del vincolo di destinazione degli edifici di culto anche in caso di trasferimenti inter vivos o mortis causa degli stessi, seppure effettuati in favore di soggetti privati, sino a che tale destinazione non fosse venuta a cessare in conformita' alle leggi in materia10.

E proprio la questione del significato da attribuire a questo riferimento presente all'interno del capoverso dell'art. 831 cod. civ., e cioe' al richiamo delle leggi concernenti la cessazione del vincolo di destinazione al culto, diede origine quasi subito ad un intenso dibattito dottrinale e giurisprudenziale, che ancor oggi non pare del tutto sopito11.

Se, con questa disposizione, i compilatori del codice hanno equiparato - quanto al regime - le chiese cattoliche aperte al culto pubblico ai beni del patrimonio indisponibile degli enti pubblici12, gran parte della giurisprudenza13 e della dottrina14, sulla base della constatazione che, a differenza di quest'ultima categoria di beni - per i quali apposite norme statuali disciplinano funditus i casi e le procedure di sottrazione degli stessi alla destinazione ad essi conferita -, nessuna disposizione di legge statuisce alcunche' circa la sottrazione al culto delle chiese aperte al culto pubblico, ha interpretato la disposizione di cui al capoverso dell'art. 831 cod. civ. nel senso che le "leggi" in esso richiamate altro non sarebbero che le norme di diritto canonico sulla deputatio ad cultum, cosi' che il legislatore statuale avrebbe operato, con la disposizione codicistica, un rinvio al diritto della Chiesa cattolica, le cui norme verrebbero a produrre effetti direttamente nell'ambito dell'ordinamento dello Stato, e il problema di stabilire i casi ed i modi di cessazione della destinazione al culto andrebbe percio' risolto esclusivamente secondo quanto disposto dalle norme ecclesiastiche15.

Ma, come ha recentemente evidenziato la dottrina ecclesiasticistica piu' autorevole, la tesi del rinvio al diritto canonico non e' del tutto soddisfacente, atteso che la citata norma del codice civile garantisce il mantenimento della destinazione dell'edificio di culto cattolico unicamente, e semplicemente, sul presupposto di fatto che esso sia attualmente aperto al culto pubblico, cosi' che quando tale presupposto, - per una qualsiasi causa, anche in via di mero fatto - venga meno, la garanzia di legge concernente la destinazione dello stesso cessera' a propria volta, senza che sia necessario considerare quanto disposto, in proposito, dalle norme dell'ordinamento canonico16

e' ormai chiaro, infatti, che se la ratio della disposizione de qua e' quella di garantire un'esigenza sociale meritevole di tutela - quale puo' essere, appunto, il soddisfacimento dei bisogni religiosi dei cittadini che si avvalgono di una chiesa aperta al pubblico -, come tale riconosciuta e valutata specificamente17, occorrera', allora, riconoscere che il potere dell'autorita' ecclesiastica in materia di deputatio ad cultum non e' stato considerato in se' - come tale - dalla disposizione codicistica, bensi' nella sua "strumentalita' necessaria"18, ovverosia come un semplice mezzo idoneo a consentire l'esplicazione di quell'attivita' che e' garantita, in questo senso, dalla stessa disposizione del secondo comma dell'art. 831 del codice19, attesa, lo abbiamo appena detto, la sua rilevanza sociale: una rilevanza che non fa altro che realizzare, in conformita' all'art. 42 della nostra Carta costituzionale, la funzione sociale della proprieta' privata degli edifici di culto, "ponendo a essa quel limite del rispetto della destinazione del bene, sussistente finche' la destinazione stessa non sia cessata"20.

Dopo questa digressione, concentriamo ora l'attenzione sull'intesa ebraica: se - come si e' gia' anticipato -, ad un esame sommario il primo comma dell'art. 15 della legge 101/1989 pare una riproduzione quasi letterale della disposizione di cui al secondo comma dell'art. 831 cod. civ., tuttavia, ad una piu' attenta lettura, non puo' sfuggire come questa norma - almeno stando alla sua formulazione letterale -, si presenti notevolmente piu' impegnativa per il sistema giuridico italiano, e questo per piu' versi21: innanzitutto, il primo comma dell'art. 15 dell'intesa ebraica costituisce una norma piu' "garantista" della corrispondente disposizione codicistica, atteso che, mentre quest'ultima deriva da una legge ordinaria, la prima gode invece di una maggiore resistenza passiva all'abrogazione, facendo parte di un corpus normativo di derivazione bilaterale22.

Ma l'aspetto piu' saliente della disposizione dell'intesa ebraica - quello che, nella nostra opinione, piu' vale a differenziarla da quella corrispondente del codice civile -, sta in quel riferimento alla necessita' del "consenso della Comunita' competente o dell'Unione" per la sottrazione di un edificio di culto alla destinazione assegnatagli, che altro non e' se non un esplicito riferimento al potere dell'organizzazione confessionale di autorizzare la cessazione della destinazione al culto degli edifici a cio' adibiti. Come si desume agevolmente dalla lettera della norma, infatti, si individuano espressamente due soggetti - la comunita' competente e l'Unione -, quali titolati a concedere il permesso di far cessare la destinazione, cosi' che in questo caso sara' unicamente l'autorita' confessionale a disciplinare il fenomeno considerato23.

Secondo parte della dottrina, atteso che - come abbiamo gia' avuto modo di vedere24 -, in sede di stipulazione dell'intesa lo Stato italiano ha voluto riconoscere l'autonomia originaria dell'organizzazione istituzionale dell'ebraismo, la norma de qua sarebbe una testimonianza, giusta quanto si e' venuto sin qui dicendo, della creazione di un potere in capo al soggetto confessionale, che, per il principio di autonomia delle confessioni, non sarebbe coercibile da nessun potere civile, ancorche' funzionale all'attuazione di interessi di rango superiore25.

La norma dell'art. 15, comma 1, della legge 101/1989, e' stata una delle prime disposizioni dell'intesa ebraica che ha trovato concreta applicazione da parte della giurisprudenza: si tratta di un caso interessante, sebbene poco noto, risalente al 1993, riguardante una piccola sinagoga di Milano - l'oratorio "Ohel Jakov" -, sita in un appartamento preso in locazione da un privato facente parte di un gruppo di fedeli nell'ambito della comunita' ebraica che li', appunto, si riunivano per pregare, il quale, vistosi intimare lo sfratto per finita locazione, aveva persistito nell'occupazione dei suddetti locali, e, proponendo opposizione all'esecuzione, aveva eccepito che la finita locazione, in quel caso, non potesse essergli intimata, giusta il vincolo di destinazione dei locali adibiti al culto derivante per l'appunto dalla disposizione dell'art. 15, comma 1, della legge 101/1989.

Investito della questione, il Pretore di Milano pronunciava ordinanza di rilascio dell'immobile in questione, interpretando la norma de qua nel senso che "la tutela della "destinazione" disposta dall'art. 15, 1° comma della legge 8 marzo 1989 n. 101 sia da valutare come cosa ben diversa dall'indiscriminata difesa dell'attuale disponibilita' di questo o quel soggetto, e che pertanto, non possa avere pregio la tesi dell'opponente, secondo cui il vincolo di destinazione sia rispettato solo se e fino a quando conduttore dell'immobile resti il solo [opponente]. E cio', [...] perche' nell'ambito dell'intesa fra lo Stato italiano e l'Unione delle Comunita' israelitiche italiane cio' che rileva non e' la salvaguardia, soggettiva, di singoli conduttori o occupanti, ma la tutela, oggettiva, del luogo, perche' esso sia disponibile all'uso da parte dei fedeli"26.

Il risultato dell'applicazione della norma nel caso concreto dimostra la singolarita' del regime previsto dalla disposizione, dal momento che, nella sostanza, se pure il locatore aveva la facolta' di recuperare il bene, nondimeno avrebbe dovuto continuare a destinarlo a luogo di culto ebraico fino a quando la comunita' territorialmente competente avesse ritenuto opportuno conservare tale destinazione, non potendo quindi che rilocarlo unicamente a qualche altro soggetto intenzionato, comunque, a mantenere questo specifico uso dell'appartamento27.

Passando, ora, ad esaminare brevemente il secondo comma dell'art. 15 della legge 101/1989 - la cui lettera dispone che gli edifici adibiti all'esercizio pubblico del culto ebraico "non possono essere requisiti, occupati, espropriati o demoliti se non per gravi ragioni e previo accordo con l'Unione" -, se, anche qui, la norma risente dell'applicazione della "clausola della confessione piu' favorita" - dal momento che la disposizione riprende da vicino l'art. 5, primo comma, dell'Accordo concordatario -, e' da dire che lo stesso discorso deve essere fatto anche per quanto riguarda tutte le altre intese28, che lo riproducono puntualmente.

Del resto, non avrebbe potuto essere diversamente, dal momento che la disposizione rispecchia essenzialmente la storia29: infatti, se e' vero che, nel passato - e soprattutto durante l'ultimo conflitto mondiale -, gli edifici di culto ebraici e protestanti, considerati alla stregua di un qualsiasi altro "comune" edificio, vennero pacificamente reputati sottoponibili ad ogni sorta di provvedimenti ablatori da parte dello Stato - che, a causa del regime di preferenza confessionale istituito dal fascismo, e dello sfavore con cui si guardava percio' alle confessioni diverse dalla cattolica, non riteneva degni di attenzione gli interessi di queste confessioni, e dei loro fedeli, al pieno godimento degli edifici destinati ai servizi di culto30 -, era logico aspettarsi che, con la stipulazione dell'intesa con lo Stato, le confessioni di minoranza avrebbero voluto assicurarsi, sul punto, una garanzia per il futuro, ottenendo, allo stesso tempo, una implicita condanna degli avvenimenti del passato31.

Una forma ulteriore di tutela degli edifici di culto contro i possibili "abusi" derivanti, talvolta, dall'esercizio dei pubblici poteri, e' costituita dalle limitazioni imposte, in tali luoghi, all'espletarsi delle attivita' della forza pubblica.

Ancora una volta, l'intesa ebraica non solo viene a colmare lo hiatus che, sul punto, il precedente sistema di rapporti tra Stato e confessioni religiose aveva creato tra la Chiesa cattolica e le confessioni di minoranza, ma, come vedremo subito, anche in questo caso sembra andare, in qualche modo, oltre le stesse garanzie che sono state previste, dal testo del nuovo Concordato: il terzo comma dell'art. 15 della legge 101/1989 dispone, infatti, che "salvi i casi di urgente necessita'", la forza pubblica non possa entrare, per l'esercizio delle proprie funzioni, negli edifici adibiti all'esercizio pubblico del culto ebraico, "senza previo avviso e presi accordi con la Comunita' competente".

Com'e' agevole rilevare, ai fini dell'accesso della forza pubblica agli edifici destinati all'esercizio pubblico del culto ebraico, il previo avviso alla comunita' competente si configura, qui, come una condizione necessaria ma non sufficiente, occorrendo infatti, in aggiunta, anche il raggiungimento di un accordo con la stessa, requisito che, invece, non e' preso in considerazione dalla norma che ha, peraltro, costituito il modello ispiratore della disposizione dell'intesa ebraica ora al nostro esame, ovverosia il secondo comma dell'art. 5 del nuovo Concordato: ecco che, allora, la disposizione dell'intesa ebraica - e degli altri testi pattizi, che la ricalcano sostanzialmente32 - viene a costituire, indubbiamente, una norma piu' garantista di quella prevista negli Accordi di Villa Madama33.

Per quanto concerne, piu' specificamente, la portata della norma de qua, e' appena il caso di notare che non si tratta assolutamente del riconoscimento di una sorta di "diritto di asilo", che apparirebbe, oltretutto, certamente anacronistico34, ma, piuttosto, del semplice riconoscimento del rispetto che merita la pace di tutti i luoghi di culto, che puo' essere turbata in modo improvviso, ora, solamente in caso di urgente necessita'35.

e' chiaro, comunque, che dovra' trattarsi di una urgenza effettiva, che andra' percio' valutata alla stregua del caso concreto, e che - almeno nella nostra opinione - sara' ravvisabile principalmente, se non unicamente, in quei casi in cui la mancanza di un intervento tempestivo della forza pubblica possa danneggiare o, quantomeno, mettere in serio pericolo la sicurezza pubblica. Per contro, l'ipotesi considerata non ricorrera' in quei casi in cui l'immediatezza dell'intervento e' giustificata da ragioni di mera opportunita' pratica - quali, ad esempio, la celerita' o la semplificazione di un procedimento esecutivo -, e questo proprio per non frustrare la ratio stessa della disposizione, che, introducendo la clausola di salvaguardia del sistema costituita dal caso dell'urgente necessita', l'ha configurata dichiaratamente come un'eccezione.

Al riguardo, paradigmatico ci sembra il caso, dianzi riferito, dell'oratorio "Ohel Jakov", in cui, alla gia' citata ordinanza di rilascio pronunciata dal Pretore, era seguita, a breve distanza di tempo, una sentenza dello stesso giudice il quale, investito - questa volta, in sede di opposizione agli atti esecutivi - della controversia riguardante la compatibilita', con le norme dell'intesa ebraica, delle modalita' del rilascio da eseguirsi in forza del titolo esecutivo costituito dalla stessa ordinanza di rilascio, si pronunciava nel senso che "non vi e' dubbio che l'ufficiale giudiziario non possa avvalersi dell'assistenza della forza pubblica, stante il chiaro disposto della normativa in questione [l'art. 15, comma 3, della legge 101/1989] che, salvi i casi di urgente necessita' (dei quali qui non si afferma la ricorrenza), [prevede specificamente] che la forza pubblica non possa entrare per l'esercizio delle sue funzioni negli edifici destinati all'esercizio pubblico del culto ebraico. [...] Va pertanto dichiarata l'illegittimita' del ricorso all'assistenza della forza pubblica"36.

Sempre per quanto concerne la materia degli edifici di culto, l'intesa ebraica contiene un'altra serie di disposizioni - l'art. 28 della legge 101/1989 -, che e' stata interamente dedicata alla specificazione degli impegni finanziari dello Stato per la costruzione di nuovi edifici di culto della confessione.

Secondo il disposto del primo comma, tali impegni finanziari - finalizzati alla costruzione non solo degli edifici di culto, ma anche delle relative pertinenze destinate ad attivita' connesse -, continuano ad essere determinati dalle autorita' civili competenti secondo le disposizioni delle leggi 22 ottobre 1971, n. 86537, e 28 gennaio 1977, n. 1038 (c.d. "legge Bucalossi") e loro successive modifiche e integrazioni, che costituiscono le due norme fondamentali in materia di partecipazione dello Stato alla costruzione di nuovi edifici di culto.

In proposito, e' da dire che la legge Bucalossi ha previsto l'istituzione, presso ogni Comune, di un fondo - costituito dalle somme percepite sia attraverso il rilascio di concessioni edilizie, che attraverso l'applicazione di sanzioni amministrative irrogate per la violazione della normativa urbanistica -, che puo' essere utilizzato per la realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria: si e', in tal modo, aperta una via per il finanziamento della costruzione degli edifici di culto, atteso che - giusta la disposizione di cui all'art. 4 della legge 29 settembre 1964, n. 84739, cosi' come modificato dall'art. 44 della gia' citata legge 865/1971 -, la costruzione degli edifici di culto costituisce realizzazione di opere di urbanizzazione secondaria, che entrano obbligatoriamente a far parte dei piani regolatori secondo determinati standards urbanistici, come definiti dal D.M. 2 aprile 1968, n. 144440, o da particolari disposizioni regionali41.

Tornando alla legge 101/1989, e' evidente, anche nel primo comma dell'art. 28, l'adeguamento dei compilatori dell'intesa ebraica agli indirizzi gia' espressi nei confronti della Chiesa cattolica42, atteso che la norma in parola non fa altro che riformulare, mutatis mutandis, quanto gia' stabilito, per quest'ultima confessione, nel primo comma dell'art. 53 della legge 20 maggio 1985, n. 22243.

Ma se e' chiaro che, in tal modo, la confessione ebraica - al pari di quella cattolica -, non potra' essere esclusa dalla previsione di ulteriori norme in materia di finanziamento della c.d. "edilizia religiosa" - e in tal senso il richiamo specifico al sistema predisposto dalle leggi 865/1971 e 10/1977, cosi' come contenuto nelle leggi 222/1985 e 101/1989, costituisce una sorta di "rafforzamento", valido solamente nei confronti della Chiesa cattolica e della confessione ebraica, dell'impegno finanziario degli enti territoriali nei confronti dell'edilizia di culto44 -, tuttavia la norma dell'art. 28, di per se', non dispone alcun tipo di finanziamento che sia diverso, ed aggiuntivo, rispetto a quelli attribuiti a tutte le altre confessioni religiose45, e puo' considerarsi, secondo la dottrina piu' autorevole46, come espressione dell'esercizio della residua competenza in tema di indirizzo e coordinamento che lo Stato ha conservato dopo il trasferimento, alle Regioni - ai sensi dell'art. 117 della Costituzione e dell'art. 88 del D.P.R. 27 luglio 1977, n. 61647 -, della competenza in materia urbanistica. Sara', dunque, principalmente alla legislazione regionale - che dispone gli interventi finanziari dei Comuni e delle stesse Regioni - che bisognera' guardare, tanto per il finanziamento della costruzione di nuove opere, come per quello degli interventi di manutenzione, conservazione e restauro degli edifici di culto gia' esistenti.

I due commi successivi dell'art. 28 della legge 101/1989 - ancora una volta nel quadro di un sistema di disciplina bilaterale fortemente imitativo del regime di rapporti instaurato nei confronti della Chiesa cattolica -, riprendono, anche letteralmente, il disposto dell'art. 53, commi 2, 3 e 4, della legge 222/1985.

Il secondo comma dell'art. 28 dell'intesa ebraica dispone, infatti, la costituzione di un vincolo ventennale di destinazione in capo agli edifici di culto ebraici che siano stati costruiti grazie al contributo finanziario delle Regioni o dei Comuni. Come aggiunge lo stesso secondo comma, inoltre, tale vincolo deve essere trascritto nei registri immobiliari: in riferimento alla omologa previsione della legge 222/1985, accreditata dottrina ha espresso la convinzione che la trascrizione del vincolo de quo costituisca una forma di pubblicita'-notizia, tesa a rendere conoscibile ai terzi il divieto - ai fini della diligenza in contrahendo -, ma che "non e' ne' costitutiva del vincolo, che ha origine nella fonte legislativa, ne' e' utile per qualificare la natura del vincolo (reale o personale), giacche' entrambe le categorie di vincoli sono passibili di trascrizione nei registri immobiliari"48; attesa, come si e' detto, l'identita' di disciplina del vincolo di destinazione all'interno dei due testi legislativi, ove si ritenga di accogliere tali considerazioni espresse dalla dottrina, esse andranno estese anche alla teste' considerata disposizione della legge 101/1989.

Ancora, e' da dire che il vincolo previsto dall'art. 28 dell'intesa ebraica e' modellato sulla base di quello previsto dal gia' esaminato art. 15, dal momento che esso non viene meno neppure in caso di alienazione dell'edificio; tuttavia, come e' stato lucidamente sottolineato, la fattispecie ex art. 28, secondo comma, differisce da quella dell'art. 15, primo comma, sotto un importante profilo, costituito dal soggetto tutelato dalla norma appositiva del vincolo: infatti, mentre il divieto di cambiamento della destinazione previsto dall'art. 15 tutela la stessa confessione ebraica, che viene in tal modo a vedersi riconosciuto un diritto "speciale" capace di prevalere, finanche, sulla posizione giuridica del terzo proprietario dell'immobile, il divieto di cui all'art. 28 si configura, invece, come un vero e proprio onere a carico della confessione, anche se, ed anzi proprio, in quanto titolare dell'edificio costruito, in tutto o in parte, con i fondi provenienti dalle casse del pubblico erario49.

La disposizione del terzo comma dell'art. 28, a parziale integrazione del precedente - e sulla stessa linea gia' seguita, come anticipato, per la Chiesa cattolica -, precisa che, comunque, il vincolo sull'edificio puo' essere estinto prima del compimento del termine ventennale "d'intesa tra la Comunita' competente e l'autorita' civile erogante", ma solamente "previa restituzione delle somme percepite a titolo di contributo, in proporzione alla riduzione del termine", peraltro, rivalutate in base agli indici ISTAT sul costo della vita. In chiusura, infine, la norma statuisce che tutti gli atti di disposizione che - in qualsiasi modo -, comportino la violazione del suddetto vincolo ventennale di destinazione, sono da considerarsi nulli.

Un'ultima notazione da fare sullo specifico argomento degli edifici di culto ebraici - che ci permettera', tra l'altro, di passare in questo modo ad occuparci della diversa, sebbene in questo caso connessa, tematica dei beni culturali dell'ebraismo italiano -, riguarda il fatto che, sebbene la legge 101/1989 si preoccupi di prendere in considerazione la questione del finanziamento pubblico per la costruzione o il mantenimento dell'edilizia di culto, la storia e la tradizione dell'ebraismo in Italia dimostrano che, nella prassi, il problema dell'intervento pubblico in relazione o a sostegno dell'edilizia di culto e' sempre stato assai marginale per la comunita' ebraica ivi residente50.

Sin dalla distruzione del Tempio di Gerusalemme, i "templi" ebraici, le sinagoghe, sono stati considerati dei semplici luoghi di riunione e di stuD-o, piuttosto che dei luoghi di pratica collettiva del culto, tanto che, ancora nel secolo scorso, nei vari dialetti italiani la sinagoga veniva chiamata "schola", cosi' come lo e' ancora oggi nei dialetti ebraico-germanici. Solamente nel linguaggio italiano di oggi ci si riferisce, invece, alla sinagoga come al "tempio", prendendo a prestito il termine - senz'altro improprio - dalle confessioni cristiane51.

Inoltre, fino all'inizio del diciannovesimo secolo, le sinagoghe erano locali assai modesti, poiche' essendo, come detto, dei semplici luoghi di riunione e di stuD-o, non necessitavano di una particolare strutturazione ed architettura; d'altro canto, certamente le leggi contro gli ebrei ed i ghetti impedivano che le sinagoghe potessero essere troppo appariscenti. Solo nell'Ottocento inoltrato, grazie alla riconquistata liberta' nello Stato laico, gli ebrei costruirono sinagoghe non solo esteriormente splendide e maestose - tali da rivaleggiare con le chiese cattoliche -, ma anche di dimensioni spropositate, che si dimostrarono, nel prosieguo, assolutamente eccessive: valga, per tutti, l'esempio della Mole Antonelliana, iniziata come sinagoga dalla comunita' ebraica di Torino che, non riuscendo poi a portare a termine i lavori di costruzione, dovette cederla al Comune52.

In seguito, l'emigrazione di massa, le persecuzioni e l'abbandono delle piccole comunita' in favore di quelle piu' numerose nelle grandi citta', hanno drasticamente ridotto il numero degli ebrei, portando quindi alla luce una questione nuova, costituita - come si e' anticipato -, non dal problema della costruzione di nuovi edifici di culto, ma, semmai, da quello della conservazione di edifici di culto non piu' necessari per quello specifico fine: ecco quindi che oggi prevale, nell'ebraismo italiano, l'aspetto della conservazione di questi edifici sotto il profilo eminentemente culturale e artistico-storico, soprattutto tenuto presente che le sinagoghe italiane sono tra le ultime rimaste, addirittura a livello europeo53.

E la rilevanza che ha il patrimonio culturale dell'ebraismo italiano e' stata esattamente trasfusa nella disposizione dell'art. 17 della legge 101/1989, che - giova ricordarlo -, a buon diritto viene a collocarsi nel quadro delineato dall'art. 9 della nostra Carta costituzionale, che sottolinea il ruolo primario della cultura, affidandone alla Repubblica - ovverosia all'intera collettivita' nazionale - lo sviluppo e assegnandole, nel contempo, la tutela dei beni che di questa costituiscono l'espressione piu' concreta, a prescindere dall'appartenenza degli stessi54.

Secondo il primo comma del citato art. 17, "lo Stato, l'Unione e le Comunita' collaborano per la tutela e la valorizzazione dei beni afferenti al patrimonio storico e artistico, culturale, ambientale e architettonico, archeologico, archivistico e librario dell'ebraismo italiano"; disposizione che trova una precisa e piena rispondenza negli articoli successivi, atteso che - come vedremo tra poco55 -, il secondo comma dell'art. 18 descrive le attuali comunita' anche come promotrici della cultura ebraica, mentre il terzo comma dell'art. 19 riconosce all'Unione delle comunita' ebraiche italiane, insieme ad altri compiti, anche quello di promuovere "la conservazione delle tradizioni e dei beni culturali ebraici".

La collaborazione tra Stato e organi confessionali ai fini di una migliore tutela e valorizzazione del patrimonio culturale religioso, non costituisce certo una peculiarita' dell'intesa ebraica, atteso che tanto negli Accordi di Villa Madama56, come nelle altre intese finora stipulate57 - tranne quella con i testimoni di Geova -, e' rintracciabile una disposizione con contenuti piu' o meno corrispondenti - salvo quanto si vedra' tra poco - a quelli dell'art. 17 dell'intesa ebraica.

Non si puo' ignorare, tuttavia, la complessita' delle formulazioni che scaturisce dalla comparazione dei vari testi: se nel Concordato si parla semplicemente di "patrimonio storico e artistico", per avventisti, "pentecostali" e battisti si parla, invece, di "patrimonio storico e culturale"; nel caso dei valdesi e dei luterani si tratta del "patrimonio storico, morale e materiale", mentre l'intesa con i buddhisti considera i "beni artistici e culturali". Se, in ultima analisi, possiamo ritrovarci d'accordo con quella parte della dottrina che ha ritenuto che in tutte queste norme si sia voluto individuare, nella realta', un uguale bene tutelato, e che alla diversita' delle formulazioni non corrisponda, quindi, una diversita' di oggetti protetti dalle disposizioni considerate58, allo stesso tempo - confortati da altra dottrina -, non possiamo fare a meno di notare come la piu' spiccata analiticita' della legge 101/1989 - che, lo ricordiamo, considera partitamente i diversi beni afferenti al "patrimonio storico e artistico, culturale, ambientale e architettonico, archeologico, archivistico e librario dell'ebraismo italiano" - costituisca una ennesima testimonianza della estrema ricchezza e della complessita' della realta' ebraica, la cui ininterrotta presenza ormai piu' che bimillenaria nel nostro Paese ha lasciato, a differenza di altre confessioni di piu' recente "stanziamento" in Italia, un patrimonio archeologico - le catacombe - e ambientale e architettonico - gli antichi ghetti -, che proprio per questo hanno dovuto trovare una esplicita menzione nell'ambito dell'intesa59, che ha dato voce, in questo modo, alla preoccupazione di preservare una realta' che, nel nostro Paese, e' riferibile quasi esclusivamente alla religione ebraica60.

Se il primo comma dell'art. 17 della legge 101/1989 esprime un precetto generico - quale puo' essere, appunto, il principio di collaborazione tra lo Stato, l'Unione delle comunita' e le comunita' stesse, ai fini della tutela e della valorizzazione dei beni culturali ebraici nelle accezioni teste' ricordate -, di ben diversa portata sono, invece, i commi successivi dello stesso articolo, che prevedono ulteriori modalita' per assicurare una piu' precisa e mirata tutela e recupero del patrimonio culturale dell'ebraismo italiano.

Il secondo comma dell'art. 17 ha previsto la costituzione - entro dodici mesi dall'entrata in vigore della legge stessa -, di una commissione mista con le finalita' di cui al primo comma dello stesso articolo, oltre a quelle di "agevolare la raccolta, il riordinamento e il godimento dei beni culturali ebraici": e' interessante notare che, oltre all'intesa ebraica, solamente quelle con i valdesi e con i luterani prevedono l'istituzione di una commissione mista per la migliore gestione e raccolta dei beni culturali afferenti alla rispettiva confessione. Se questo dato viene a tracciare, nell'ambito delle intese finora stipulate, una ulteriore linea di demarcazione tra le confessioni con intesa, la differenza e' facilmente spiegabile riallacciandoci a quanto detto poc'anzi: sembra rispondente a logica, infatti, ritenere che le confessioni di piu' recente stanziamento nel nostro Paese - avendo, di norma, una minore quantita' di beni culturali -, non abbiano percio' voluto gravare la propria intesa con il rinvio ad una futura commissione, che invece e' presente nelle intese con le confessioni "storiche", proprio a motivo della loro intrinseca ricchezza culturale61.

Tornando alla commissione mista prevista dall'intesa ebraica, occorre segnalare che, nonostante l'Unione delle comunita', poco dopo l'entrata in vigore della legge 101/1989, avesse comunicato al Ministero i nomi delle persone che, in rappresentanza della Unione stessa, avrebbero fatto parte della commissione62, a tutt'oggi non si e' ancora assistito alla nomina dei componenti di parte ministeriale, cosi' che l'intesa ebraica, sul punto - non diversamente, del resto, dalle intese con i valdesi e i luterani -, e' rimasta sinora ferma alle dichiarazioni di principio.

Se e' vero che, anche prima della legge 101/1989, lo Stato non si e' completamente disinteressato del patrimonio culturale afferente alla realta' ebraica italiana - varando, anzi, importanti iniziative ascrivibili comunque, lato sensu, al tema della collaborazione tra lo Stato e la confessione63 -, e' indubbio che l'istituzione della suddetta commissione mista agevolerebbe non poco lo sforzo teso al miglioramento dei diversi progetti di tutela della cultura ebraica, rendendoli, percio' stesso, piu' incisivi ed efficaci.

Come risulta dal secondo comma dell'art. 17 della legge 101/1989 - e dai commi successivi che stiamo per esaminare -, le funzioni attribuite alla commissione de qua sono infatti molteplici, con lo scopo di semplificare per piu' versi la raccolta, il riordino ed il godimento delle testimonianze della cultura ebraica nella sua globalita', contribuendo inoltre, sotto diversi profili, alla talvolta difficile opera di coordinamento delle istanze della confessione con quelle dello Stato e degli altri enti territoriali, che non sempre sono del tutto coincidenti.

Vediamo brevemente i piu' rilevanti tra questi profili, alcuni dei quali hanno recentemente trovato un qualche accomodamento in forza delle recenti innovazioni sul piano legislativo, che, tuttavia, presuppongono anch'esse l'istituzione della commissione mista sui beni culturali religiosi ai fini di una migliore gestione dell'intera materia.

Il primo di questi profili potrebbe essere costituito dalla considerazione che l'ebraismo, in generale, attribuisce alle forme artistiche degli strumenti del proprio culto: nella religione ebraica, infatti, "vi e' un'assoluta prevalenza dell'uso cultuale e del rispetto dei riti nei confronti di una visione diciamo cosi' museografica"64 degli oggetti usati nelle cerimonie religiose, tanto che vi sono delle norme tradizionali che impongono ad esempio che, quando i rotoli della Legge siano giunti ad un tale punto di deterioramento da essere ormai inservibili ai fini del culto, essi debbano essere sepolti - non distrutti -, e resi inutilizzabili65. Com'e' facile intuire, cio' contrasta decisamente con il diverso - seppur comprensibile - orientamento, di segno "laico", che li vorrebbe, invece, restaurati ed esposti nei musei, a beneficio della generalita' del pubblico.

Ancora, va accennato un altro profilo, che attiene alla particolare conformazione delle comunita' ebraiche del nostro Paese. Nonostante l'evidenziato fenomeno "migratorio" degli ebrei dalle comunita' di dimensioni minime - con conseguente estinzione delle stesse -, a quelle di grandi dimensioni site nelle principali citta' italiane, continuano tuttavia ad esistere moltissime piccole comunita' le quali, proprio a causa delle ridotte dimensioni, non sono assolutamente in grado di assumere autonome iniziative finalizzate alla tutela del loro patrimonio culturale che rischia, cosi', di scomparire per sempre. Qui, veramente, la commissione mista sarebbe piu' che mai necessaria, soprattutto in qualita' di organo di avvio e di propulsione di quelle necessarie iniziative che tali micro-comunita' non possono promuovere in quanto non in grado, o perche' addirittura assenti dal territorio66.

Un altro contrasto, evidenziato dalla dottrina, e' quello riguardante la questione del mantenimento dell'uso di culto di oggetti e arredamenti a cio' destinati, anche da parte di comunita' ebraiche diverse da quelle al cui servizio tali beni erano originariamente destinati67. In tal senso, la "regionalizzazione" delle competenze statuali in materia di urbanistica, musei e biblioteche degli enti locali attuata con l'art. 9 del D.P.R. 14 gennaio 1972, n. 368, ha reso attuale quello che in precedenza era un conflitto solamente potenziale, tra una visione per cosi' dire "localistica" della conservazione dei beni culturali - fatta propria dalle Regioni, tendenti a conservare in loco tutte le manifestazioni della storia e della tradizione locale -, e le esigenze cultuali-religiose delle comunita' ebraiche distribuite sul territorio dello Stato, che essendo state caratterizzate, nel passato anche recente, da una certa "mobilita' forzata", con la scomparsa di quelle di minori dimensioni ed il corrispondente accrescimento di quelle situate nelle maggiori citta' italiane, si trovano spesso nella necessita' di arredare sinagoghe e di procurarsi oggetti destinati al culto che, mentre languiscono irrimediabilmente nei locali di comunita' ormai estinte, scarseggiano in quelle recentemente ampliate69.

e' da dire, invero, che tale contrasto aveva trovato la sua origine teorica nelle disposizioni della legge 1 giugno 1939, n. 108970, sulla tutela delle cose di interesse artistico e storico. L'art. 11 della legge de qua disponeva, infatti, che le cose di interesse artistico appartenenti alle Provincie, ai Comuni ed agli enti e istituti legalmente riconosciuti non potessero essere "demolite, rimosse, modificate o restaurate" senza l'autorizzazione del Ministero competente, mentre il successivo art. 23 sanciva l'inalienabilita' dei beni culturali appartenenti "allo Stato o ad altro ente o istituto pubblico": tutto cio' acquistava una portata assai rilevante tanto per l'Unione che per le stesse comunita', le quali, nel vigore del R.D. 1731/1930, erano quasi unanimemente ritenute, dalla dottrina come dalla giurisprudenza, dei veri e propri enti pubblici - e questo nonostante l'art. 1 del citato decreto le definisse come semplici "corpi morali"71 -, derivandone, quindi, un regime particolarmente rigoroso in merito ai beni considerati.

Soltanto in tempi recentissimi, il D.Lgs. 29 ottobre 1999, n. 49072, intitolato "Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali", ha finalmente riorganizzato la "ragnatela normativa" sull'argomento, con opportune disposizioni di coordinamento, che possono far ritenere sostanzialmente superato lo specifico problema: infatti, a prescindere dal fatto che, come vedremo nel prossimo paragrafo, la stessa legge 101/1989 non ha sopito del tutto il dibattito sulla natura giuridica delle comunita' ebraiche, la vexata quaestio non riveste piu' alcuna attinenza con il problema della concreta gestione dei beni culturali religiosi, atteso che l'art. 19, comma 1, del D.Lgs. 490/1999, per cio' che concerne i beni culturali di interesse religioso appartenenti ad enti ed istituzioni della Chiesa Cattolica o di altre confessioni religiose, dispone la necessita' - per il Ministero e per le Regioni nei rispettivi ambiti di competenza -, di provvedere d'accordo con le rispettive autorita' confessionali alle esigenze del culto. Il secondo comma dello stesso articolo, inoltre, opportunamente - e significativamente - specifica che andranno altresi' osservate le disposizioni stabilite dalle leggi emanate sulla base delle singole intese.

Nella nostra opinione, dalla normativa appena esaminata emerge come, lungi dall'essere divenuta in qualche modo "superflua" a causa del trascorrere invano del tempo, l'istituzione della commissione mista per le confessioni la cui intesa lo preveda rappresenti, oggi piu' che mai, una concreta necessita', resa semmai ancora piu' attuale - ed urgente - dal recente riordino della legislazione sui beni culturali e ambientali che, con il rimando alle disposizioni della legislazione di derivazione bilaterale, chiaramente ha voluto predisporre uno strumento di piena tutela della specifica identita' propria di ogni confessione stipulante: anche per questi profili, dunque, e' auspicabile che venga costituita al piu' presto la commissione paritetica di cui all'art. 17 dell'intesa ebraica, per non frustrare con l'immobilismo "amministrativo" la ratio di una norma che costituisce, ancora una volta, l'espressione autentica della specifica identita' ebraica.

Identita' ebraica che viene del resto ulteriormente valorizzata, nella sua specificita', dal terzo comma dell'art. 17, dove si dispone che sara' compito della suddetta commissione determinare "le modalita' di partecipazione dell'Unione alla conservazione e alla gestione delle catacombe ebraiche e le condizioni per il rispetto in esse delle prescrizioni rituali ebraiche".

Come abbiamo gia' avuto occasione di vedere in altra parte della trattazione73, il Concordato lateranense era stato criticato da parte dell'ebraismo anche perche', all'art. 33, aveva ceduto alla Santa Sede la disponibilita' di tutte le catacombe "esistenti nel suolo di Roma e nelle altre parti del territorio del Regno": la norma non teneva conto dell'esistenza anche delle catacombe ebraiche, e oltretutto, prevedendo il diritto della Santa Sede di procedere ad esplorazioni e riesumazioni, violava clamorosamente il principio di perpetuita' delle sepolture ebraiche74.

Fin dal 1975, l'Unione delle comunita' aveva rivendicato con forza che la Chiesa cattolica rinunciasse alla disponibilita' delle catacombe non cristiane: in accoglimento delle richiesta di parte ebraica, cio' e' puntualmente avvenuto con gli Accordi di revisione del 1984, offrendo cosi' all'ebraismo italiano la possibilita' di "dire la sua" in ordine a beni che rivestono un indubbio valore culturale e religioso, e che costituiscono importanti documenti della sua storia meno recente75.

Ma se, con il nuovo Concordato, lo Stato ha riacquistato la disponibilita' delle catacombe ebraiche, ha pero' evitato di assegnarla all'Unione delle comunita', limitandosi a prevedere, secondo la disposizione del terzo comma dell'art. 18, una sorta di "cogestione"76, i cui caratteri andranno meglio definiti - e precisati - nell'ambito della commissione mista prevista dallo stesso articolo, atteso che l'espressione di "partecipazione alla conservazione e alla gestione", usata nella disposizione, e' estremamente generica e indeterminata, e fa presumere il riferimento a qualsiasi attivita' riferita alle catacombe, compresa quella di esplorazione, se intesa a scopi conservativi77.

Va specificato che le catacombe romane non rappresentano gli unici esempi di sepolcreti sotterranei ebraici presenti nel bacino mediterraneo, in quanto tanto a Beth Shearim (Israele), cosi' come a Tripoli e a Malta, sono rinvenibili ulteriori testimonianze di questo tipo; per quanto riguarda piu' specificamente il nostro Paese, catacombe ebraiche sono ancora identificabili, anche se ormai pressoche' perdute, a S. Antioco, a Noto e a Siracusa78. Vanno menzionate anche le catacombe di Venosa, la cui disponibilita' e' pero' sempre rimasta in capo allo Stato79, cosi' che l'interesse dell'ebraismo si e' da sempre incentrato sulle catacombe ebraiche romane, che sarebbero almeno sei: due sulla via Nomentana, sotto i giardini di Villa Torlonia; altrettante sulla via Appia - sono le catacombe di Vigna Randanini e Vigna Cimarra -, una sulla via Portuense - catacomba di Monteverde - e, infine, un'altra sull'antica Via Labicana. Attualmente comunque, fra le catacombe certamente ebraiche rimangono percorribili sole le due catacombe di Villa Torlonia e quella di Vigna Randanini80.

Concludendo la disamina dell'art. 18 della legge 101/1989, resta da dire dell'ultimo comma, che prescrive che alla medesima commissione mista debba essere data puntuale notizia del reperimento dei beni considerati dal primo comma dello stesso articolo: si tratta, essenzialmente, di uno strumento conoscitivo e di collegamento finalizzato alla programmazione di una campagna di valorizzazione del patrimonio culturale ebraico. Come e' appena il caso di notare, infine, e' chiaro che destinataria di tale precetto sara' senza dubbio unicamente l'autorita' amministrativa che abbia avuto notizia del ritrovamento - o della scoperta - di beni la cui conservazione rivesta un interesse pubblico: infatti, come e' stato sottolineato, la normativa di derivazione bilaterale e' esclusivamente intesa a regolare i rapporti tra lo Stato e l'Unione delle comunita', e non puo' interferire direttamente nella sfera giuridica del privato cittadino81.

Note:

  1. Cfr. G. Long, Le confessioni religiose "diverse dalla cattolica", cit., p. 214.Torna
  2. Cfr. R. Botta, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 298.Torna
  3. In particolare, v. supra, § 4.2.Torna
  4. Salvo l'intesa con la Tavola valdese, che tace sul punto, tutte le altre intese contemplano disposizioni che, mutatis mutandis, e salvo marginali differenze, sono in proposito quasi completamente allineate: v. l'art. 16, L. 516/1988; l'art. 11, L. 517/1988; l'art. 17, L. 116/1995; l'art. 14, L. 520/1995; l'art. 8 dell'intesa con i testimoni di Geova, e l'art. 15 dell'intesa con i buddhisti.Torna
  5. Cfr. F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., p. 335.Torna
  6. Mentre, ancora una volta, l'ultima bozza d'intesa presentata dal COREIS appare ricalcata sul testo dell'intesa ebraica: v., in particolare, il secondo comma dell'art. 7 della citata bozza.Torna
  7. Cfr. R. Botta, L'intesa con gli israeliti, cit., p. 117.Torna
  8. Cfr., in questo senso, G. Peyrot, voce Edifici di culto acattolico, in Enc. dir., XIV, Milano, 1965, pp. 287 s.; A. C. Jemolo, Lezioni di diritto ecclesiastico, cit., p. 378, e G. Olivero, Sulla condizione giuridica degli edifici di culto acattolico, in Annali del Seminario giuridico dell'Universita' di Catania, 1950 51, vol. V, p. 148.Torna
  9. Infatti, come ha sottolineato T. Mauro, L'evoluzione della normativa sull'edilizia di culto, in Aa. Vv., L'edilizia di culto. Profili giuridici, a cura di C. Minelli, Milano, 1995, p. 19, gia' l'art. 18, n. 1, del D.L. 7 luglio 1866, n. 3036, mentre, da un lato, sopprimeva giuridicamente le case appartenenti alle corporazioni religiose, disponendo che i loro beni fossero devoluti al demanio, d'altro canto esentava espressamente da tale devoluzione "gli edifici ad uso di culto che si conserveranno a questa destinazione".Torna
  10. Cfr. L. Zannotti, Stato sociale, edilizia di culto e pluralismo religioso. Contributo allo stuD-o della problematica del dissenso religioso, Milano, 1990, pp. 16 s.Torna
  11. Cfr. C. Dell'Agnese, Edifici di culto e vincolo di destinazione, in DE, 1990, II, p. 193.Torna
  12. Cfr. F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., p. 338; L. Zannotti, Stato sociale, edilizia di culto e pluralismo religioso, cit., p. 16, in nota, e T. Mauro, L'evoluzione della normativa sull'edilizia di culto, cit., p. 23.Torna
  13. V., ad esempio, Cass., Sez. III civ., sent. 16 giugno 1951, n. 1572, in FI, 1952, I, cc. 605 ss.; Cass., Sez. I civ., sent. 27 novembre 1973, n. 3227, in DE, 1976, II, pp. 133 ss.; Trib. Padova, sent. 12 aprile 1954, in DE, 1957, II, pp. 225 ss.; Pret. Dolo, sent. 20 settembre 1989, in DE, 1990, II, pp. 191 s.Torna
  14. Cfr. G. R. Giacomazzo, Sul pubblico uso degli edifici di culto di proprieta' privata: premesse ed effetti, in DE, 1957, II, p. 229; Id., Art. 831, comma 2, c.c.: rinvio o presupposto?, in DE, 1958, I, pp. 338 s.; A. Bertola, voce Cosa sacra, in NNDI, IV, Torino, 1959, p. 1038; M. Petroncelli, voce Edifici di culto cattolico, in Enc. dir., XIV, Milano, 1965, specialmente pp. 297 s.; V. Tozzi, voce Edifici di culto e legislazione urbanistica, in Dig. disc. pubbl., V, Torino, 1990, p. 388.Torna
  15. Individuabili oggi, tra l'altro, nei cann. 1212 e 1222 c.j.c.: cfr. F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., e C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 400.Torna
  16. In questo senso, cfr. F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit.-, p. 338. Anche secondo C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 400, e' necessario verificare l'effettivita' della destinazione al culto pubblico dell'edificio. Del resto, anche parte della giurisprudenza, in passato, si era pronunciata in tal senso: v., ad esempio, Cass., Sez. I civ., sent. 12 febbraio 1953, n. 359, in FI, 1954, I, cc. 352 ss.Torna
  17. Cfr. L. Scavo Lombardo, Aspetti del vincolo civile protettivo della "deputatio ad cultum publicum", in DE, 1950, I, p. 265.Torna
  18. Cosi', ancora L. Scavo Lombardo, Aspetti del vincolo civile protettivo della "deputatio ad cultum publicum", cit., p. 292.Torna
  19. Cfr. A. Albisetti, Brevi note in tema di "deputatio ad cultum publicum" e art. 42 della Costituzione, in DE, 1976, II, p. 141.Torna
  20. F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., p. 339. Cfr. anche A. Albisetti, Brevi note in tema di "deputatio ad cultum publicum", cit., p. 144.Torna
  21. Cfr. V. Tozzi, Gli edifici di culto nel sistema giuridico italiano, Salerno, 1990, p. 213.Torna
  22. Cfr. F. Finocchiaro, diritto ecclesiastico, cit., p. 342.Torna
  23. Cfr. V. Tozzi, Gli edifici di culto nel sistema giuridico italiano, cit., p. 214.Torna
  24. V. supra, cap. I.Torna
  25. Cfr. ancora V. Tozzi, Gli edifici di culto nel sistema giuridico italiano, cit., pp. 214 s.Torna
  26. Pret. Milano, ord. 25 gennaio 1993, in QDPE, 1993/3, p. 610.Torna
  27. Cfr. G. Sacerdoti, Intervento, alla Tavola rotonda su L'attuazione della normativa: esperienze e prospettive, in Aa. Vv., L'edilizia di culto, cit., p. 168.Torna
  28. Tranne quella con la Tavola valdese che, come gia' si e' detto, non prende in esplicita considerazione la materia degli edifici di culto.Torna
  29. Cfr. G. Long, Le confessioni religiose "diverse dalla cattolica", cit., p. 214.Torna
  30. Cfr. G. Peyrot, voce Edifici di culto acattolico, cit., p. 290.Torna
  31. Cfr. ancora G. Long, Le confessioni religiose "diverse dalla cattolica", cit., p. 214.Torna
  32. Salvo il caso dell'intesa con i "pentecostali", che, sul punto (v. art. 11, comma 2, L. 517/1988), come nel caso del Concordato, prevede la necessita' del solo preavviso (da effettuarsi in questo caso, ai ministri delle singole chiese).Torna
  33. Cfr. V. Parlato, Le intese con le confessioni acattoliche, cit., p. 94, in nota.Torna
  34. Come avverte V. Tozzi, Gli edifici di culto nel sistema giuridico italiano, cit., p. 199, sebbene ancora nei primi decenni del Novecento il can. 1179 c.j.c. continuasse a prevedere l'istituto del diritto di asilo - in base al quale il reo rifugiatosi in una chiesa non poteva essere catturato senza il consenso dell'ordinario D-ocesano o del rettore -, gia' la legge Siccardi del 1850 ne aveva esplicitamente vietato l'applicazione in ambito civile, mentre la successiva legge delle guarentigie del 1871 ribadiva l'autonomia dell'autorita' civile da qualsiasi limitazione proveniente dal diritto canonico. Il nuovo Codex del 1983, infine, ha segnato il definitivo venire meno di questo antico istituto canonistico nello stesso ordinamento della Chiesa.Torna
  35. Cfr. F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., p. 336.Torna
  36. Pret. Milano, sent. 8 febbraio 1993, in QDPE, 1993/3, p. 612.Torna
  37. In G.U., 30 ottobre 1971, n. 276.Torna
  38. In G.U., 29 gennaio 1977, n. 27.Torna
  39. In G.U., 8 ottobre 1964, n. 248.Torna
  40. In G.U., 16 aprile 1968, n. 97.Torna
  41. Cfr. R. Botta, L'intesa con gli israeliti, cit., p. 299, e F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., p. 347.Torna
  42. Cfr. F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., p. 350.Torna
  43. In G.U., 3 giugno 1985, n. 129, suppl. ord.Torna
  44. Cfr. R. Botta, Le fonti di finanziamento dell'edilizia di culto, in Aa. Vv., L'edilizia di culto, cit., pp. 101 s. Una obiezione a questa "concordatarizzazione" degli impegni finanziari in materia di edilizia di culto - operata solamente nei confronti della Chiesa cattolica e della confessione ebraica -, e' stata avanzata da V. tozzi, Gli edifici di culto nel sistema giuridico italiano, cit., p. 250, che l'ha ritenuta "gravemente lesiva del principio di uguaglianza in generale e della sua specificazione come diritto alla "uguale liberta'" delle Confessioni religiose, non giustificat[a] da quella differenza di contesto o di identita' di soggetti confessionali presenti nella realta' sociale italiana, che renderebbero "razionale" la disparita' di trattamento".Torna
  45. Cfr., in questo senso, G. Long, Le confessioni religiose "diverse dalla cattolica", cit., p. 214.Torna
  46. Cfr. F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., p. 347.Torna
  47. In G.U., 14 gennaio 1978, n. 14.Torna
  48. Cosi', V. Tozzi, Gli edifici di culto nel sistema giuridico italiano, cit., pp. 247 s.Torna
  49. In questo senso, cfr. G. Long, Intervento, alla Tavola rotonda su L'attuazione della normativa: esperienze e prospettive, cit., p. 162.Torna
  50. Cfr. G. Sacerdoti, Intervento, cit., p. 165.Torna
  51. Cfr. G. Fubini, Ebraismo italiano e problemi di liberta' religiosa, cit., pp. 678 s.Torna
  52. Cfr. ancora G. Sacerdoti, Intervento, cit., p. 165.Torna
  53. In questo senso, cfr. G. Sacerdoti, Il patrimonio culturale delle minoranze religiose, in Aa. Vv., Beni culturali e interessi religiosi, Napoli, 1983, p. 214.Torna
  54. Cfr. A. Vitale, voce Beni culturali nel diritto ecclesiastico, in Dig. disc. pubbl., II, Torino, 1987, p. 229.Torna
  55. V. infra, § 4.9.Torna
  56. V., in particolare, l'art. 12.Torna
  57. V. l'art. 17, L. 449/1984; l'art. 34, L. 516/1988; l'art. 26, L. 517/1988; l'art. 18, L. 116/1995; l'art. 16, L. 520/1995, e l'art. 16 della recente intesa con i buddhisti.Torna
  58. In questo senso, cfr. V. Parlato, Le intese con le confessioni acattoliche, cit., p. 117.Torna
  59. Cfr. G. Long, Tutela e valorizzazione del patrimonio culturale nelle intese con le confessioni diverse dalla cattolica, in Aa. Vv., Beni culturali di interesse religioso. Legislazione dello Stato ed esigenze di carattere confessionale, a cura di G. Feliciani, Bologna, 1995, p. 92.Torna
  60. Cfr. E. Camassa Aurea, I beni culturali d'interesse religioso: norme statali, norme pattizie e norme confessionali, in Aa. Vv., I beni culturali. Esigenze unitarie di tutela e pluralita' di ordinamenti, a cura di L. Mezzetti, Padova, 1995, p. 203.Torna
  61. Cfr., in questo senso, ancora G. Long, Tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, cit., p. 93.Torna
  62. Come riferisce la dottrina, infatti, l'Unione comunico' all'allora Ministero per i Beni culturali e ambientali i nomi della rappresentanza ebraica con lettera del 12 luglio 1989: cfr., in proposito, D. Tedeschi, Tutela e valorizzazione del patrimonio culturale dell'ebraismo italiano, in Aa. Vv., Beni culturali di interesse religioso, cit., pp. 82 s.Torna
  63. A titolo meramente esemplificativo si puo' ricordare, qui, la nascita a Roma, nel corso degli anni Ottanta, del Centro Bibliografico dell'Unione delle comunita', che certamente non sarebbe stata possibile senza i generosi contributi finanziari della Regione Lazio e della Provincia di Roma - oltre alle elargizioni del Premio Nobel Rita Levi Montalcini -, per la ristrutturazione dei locali di proprieta' dell'Unione. Ancora, possiamo menzionare la sinagoga di Pesaro, magnifico esempio di architettura barocca, che non sarebbe stato possibile salvare senza i restauri di cui si sono fatte carico la Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici di Ancona e quella per i beni artistici e storici di Urbino. Cfr. D. Tedeschi, Tutela e valorizzazione del patrimonio culturale dell'ebraismo italiano, cit., pp. 81 s.Torna
  64. Cosi', G. Sacerdoti, Il patrimonio culturale delle minoranze religiose, cit., p. 217.Torna
  65. Cfr. ancora G. Sacerdoti, Il patrimonio culturale delle minoranze religiose, cit., p. 217.Torna
  66. Cfr. D. Tedeschi, Tutela e valorizzazione del patrimonio culturale dell'ebraismo italiano, cit., p. 84.Torna
  67. Cfr. ancora D. Tedeschi, Tutela e valorizzazione del patrimonio culturale dell'ebraismo italiano, cit., p. 84.Torna
  68. In G.U., 19 gennaio 1972, n. 15, suppl. ord.Torna
  69. Cfr. G. Sacerdoti, Il patrimonio culturale delle minoranze religiose, cit., pp. 222 s., che ricorda un caso, verificatosi nel 1980, in cui la comunita' di Milano, avendo allestito un nuovo oratorio, e avendo avuto notizia che a Fiorenzuola - sede di una comunita' ebraica ormai estinta -, esisteva una sinagoga ancora completamente arredata, si propose di acquisirne i relativi arredi, peraltro con il benestare della comunita' di Parma, nella cui giurisdizione e' sita Fiorenzuola. Ma l'operazione incontro' l'opposizione dell'associazione Italia Nostra, che voleva evitare che fosse portata via dall'Emilia la testimonianza storica della comunita' di Fiorenzuola. Se gli accertamenti condotti dalla sovrintendenza - che accertarono trattarsi, nel caso, di arredi privi di particolare pregio artistico - condussero, infine, all'autorizzazione alla rimozione degli stessi per il trasferimento a Milano, la vicenda testimonia, comunque, dell'esistenza di un contrasto tra gli interessi generali del culto ebraico, da un lato, e gli interessi locali, dall'altro.Torna
  70. In G.U., 8 agosto 1939, n. 184.Torna
  71. Per le citazioni di dottrina e giurisprudenza, v. infra, § 4.9.Torna
  72. In G.U., 27 dicembre 1999, n. 302, suppl. ord.Torna
  73. V. supra, § 2.4.Torna
  74. Cfr. E. Camassa Aurea, I beni culturali d'interesse religioso, cit., p. 204. V. anche supra, § 4.4.Torna
  75. Cfr. D. Tedeschi, Tutela e valorizzazione del patrimonio culturale dell'ebraismo italiano, cit., p. 85.Torna
  76. L'espressione e' di G. Long, Le confessioni religiose "diverse dalla cattolica", cit., p. 216.Torna
  77. Cfr. D. Tedeschi, Tutela e valorizzazione del patrimonio culturale dell'ebraismo italiano, cit., p. 87.Torna
  78. Sull'argomento, cfr. M. Vitale, Le catacombe ebraiche: premesse per un recupero, in RMI, 1986/1, p. 176.Torna
  79. Cfr. D. Tedeschi, Tutela e valorizzazione del patrimonio culturale dell'ebraismo italiano, cit., p. 85.Torna
  80. Cfr. M. Vitale, Le catacombe ebraiche, cit., pp. 180 s.Torna
  81. Cfr. ancora D. Tedeschi, Tutela e valorizzazione del patrimonio culturale dell'ebraismo italiano, cit., p. 88.Torna

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