Una storiella tutta mia21 novembre 1997L'anno 1991... Torino... uno Shabbath mattina... dopo anni che non mettevo piede in Italia... esco alle sette di casa, tirato a lucido indossando il mio talled sopra la giacca del vestito... pensando con un certo buon umore ai miei amici per i quali, con atavica mentalita' da ghetto, cosi' tipica fra gli ebrei italiani, ogni scusa è buona per nascondersi, per non dar nell'occhio, per non fare l'onda insomma... amici che mi avevano detto piu' di una volta: ...ma sei matto ad andare in giro per Torino con quella kippa' in testa?... vuoi proprio fare il bersaglio?... con tutti i marocchini che ci sono in giro... Io invece ero cosi' contento di intraprendere quella lunga camminata, forse un'ora, forse meno, chissa'... fino alla grande sinagoga di Torino, orientaleggiante fino al ridicolo dal di fuori... per chissa' quale stranezza culturale..... o culturaleggiante... del secolo scorso..., cosi' contento di essere in un giorno diverso da quello della frenesia, a quell'ora gia' ben in movimento, di tutti i circostanti torinesi. Io non stavo andando al mercato, a far compere in centro, a cercare di non farmi prendere (quale vana speranza !) nelle congestioni del traffico, e non stavo nemmeno caricando una macchina nervosamente per andare nervosamente a divertirmi, nervosamente, in qualche posto in montagna che sarebbe ben presto diventato nervoso....: io, in ghingheri come un damerino, vestito come mia madre vorrebbe che fossi ogni giorno, ...sei cosi' bello cosi'... sei proprio il mio Sergio come ti avrei sempre voluto !..... nonostante il rifiuto della cravatta, che da' un tocco meno rigido..., io ero in festa... e camminavo, nella mia solitaria processione regale verso un posto cosi' immutato sin da ben prima dei goti... Ero felice, si, serio e sorridente, straniero turista in un posto che conoscevo come le mie tasche, e da cui, da sempre, ero sempre piu' diverso... Giunsi all'angolo di via Felice Bricarello, martire della resistenza, dove una volta all'angolo c'era per decenni il bar Olimpic, che chissa' adesso come si chiama... America, forse, per una strana ironia, non avendo neppure un atomo di americano... Il bar era appena aperto, alle sette di un sabato: non è tempo di operai e impiegati, ma c'erano ancora, seduti all'angolo sul marciapiede, in semicerchio, un vecchio arabo dalla faccia rotonda e calotta bianca sulla testa, attorniato da cinque giovani appena adolescenti, coi loro tabbetini, accendini, sbugnette... quasi a preparare un piano di vendita ai torinesi freddi e gia' stanchi della loro incomprensibile insistenza... Io li vedo e sono visto dal vecchio a distanza, cavaliere senza cavallo ma ammantato di bianco, mentre avanzo nella loro direzione... un sorriso felice di fierezza stampato senza pretese fra le spalle ammantate e la testa coperta dalla mia grossa chippa' di Samarcanda... e non posso fare a meno di notare una luce nei suoi occhi che era luce di un tempo passato da molto. A tiro di voce, con gesto orientale della mano destra, dal cuore alle labbra alla fronte, gli dico il saluto che loro hanno preso da noi, nella sua lingua: al salaam 'alekum, cosi' vicino al nostro shalom 'alechem di maestri talmudici e barbuti o beghine di ogni stetl e ghetto d'Europa. L'uomo si alza di scatto: i suoi occhi piu' giovani di quarant'anni, si inchina e con il braccio attraverso lo stomaco risponde 'alekum salaam e raddrizzatosi in un sorriso a pochi denti ingialliti, si inchina a parole ancor di piu' dicendomi, forte e con fierezza: Shabbath shalom !!, con quell'accento marocchino che ho imparato ad amare nei lunghi anni di amicizia con quelli che forse erano i suoi vicini a Casablanca, Mehnez, Rabat o Mogador, e che i suoi occhi improvvisamente rivedevano nel fresco mattino torinese d'autunno. Shabbath shalom, gli risposi, capendo che in quel momento io non ero che uno dei tanti Abutbul, Azulai, Abuhatsera, Maimon o Mahlouf... un suo vicino del popolo del libro, e forse compagno di giochi (fra un pogrom e l'altro...) e che lui era il giovane Aziz... Continuai nel mio cammino, voltandomi solo un istante, forse due a dire il vero, non capendo che cosa il vecchio dicesse con l'aria cosi' seria, con tanto di indice in movimento, ai giovani arabi sorpresi e non altrettanto felici... capii solo ...yahoodi ...yahoodi, ...un ebreo ...un ebreo, detto col tono severo di chi chiede rispetto per qualcuno, col suo manto bianco, che forse prima aveva ricevuto una rapida maledizione coniugata in cane. La mia testa correva veloce per mondi sconosciuti... e una lacrima annebbiava la vista delle ricche case dei miei amici Abuhatsera e Abitbol, abbandonate in fuga frettolosa nel '48, che si confondevano con l'angolo della via successiva che si avvicinava e che attraversai in fretta, verso via Filadelfia, lo stadio, corso Sebastopoli.... Sergio Tezza |