Rav Shlomo Bekhor, rabbino del tempio Yosef Tehilloth
(Rito sefardita orientale, via dei Gracchi, Milano)

Come ha detto Rav Della Rocca, chiudere le porte certamente non porta alcun vantaggio a nessuna delle parti. Bisogna cercare di sfruttare ogni vantaggio, ogni insegnamento che ogni scuola puo' dare. Io sono rabbino del tempio Yosef Tehilloth di Milano, a via dei Gracchi. Ho studiato in una scuola diversa, nella scuola dei Lubavitch, tuttavia ho da imparare e ho anche da dare anche al rabbinato italiano e sono felice che ci sia stata questa apertura. Al convegno di Jesolo del 1994, non avevo visto partecipare rabbini di altre scuole al di fuori di quelle Italiane, per cui quest'apertura e' un grande cambiamento e sono sicuro che dara' grandi frutti.

Tornando al tema un rabbino per la comunita', una comunita' per il rabbino, io sono anche un rabbino italiano di una comunita' italiana e volevo appunto esprimere il mio punto di vista.

Quando parlo di comunita', non intendo riferirmi alla comunita' in quanto ente, come la comunita' di Milano o di Roma, ma piuttosto alla comunita' come tempio, come piccola congregazione, che pur facendo parte della grande comunita' centrale ha una sua organizzazione interna e delle proprie attivita'.

La comunita' (e il tempio in quanto una delle sue espressioni peculiari) puo' essere vista come una ditta, una ditta commerciale e, in quanto tale, viene diretta normalmente da un commerciante, che deve far si' che ci sia un equilibrio tra uscite ed entrate. E' piu' opportuno che a dirigere una comunita', una congregation venga chiamato un commerciante, un imprenditore, piuttosto che un architetto o un avvocato.

Se da una parte questo e' sicuramente un vantaggio, dall'altro tuttavia comporta anche degli svantaggi alla comunita', che cerchero' di chiarire .

La comunita' viene vista come una grande ditta, con i suoi segretari, i suoi venditori, il direttore, l' ufficio marketing come in tutte le grandi ditte: cosi' anche il rabbino fa parte di questa grande struttura perche' lui e' un dipendente di questa grande ditta. Allora, la funzione del rabbino viene valutata in base alle entrate e alle uscite che lui comporta alla comunita' e su questa base si decide se assumere un rabbino e quali attivita' gli sono consentite.

Vorrei citare qualche esempio in proposito. Spesso si rivolgono alla comunita' o alla scuola della comunita' - che e' sempre in deficit - delle persone che vogliono iscriversi.

Secondo lo stesso statuto delle comunita' Italiane dovrebbe essere il rabbino a decidere se accettare o meno l'iscrizione di questa famiglia. Puo' accadere che la sua decisione sia profondamente influenzata dalle necessita' di bilancio che hanno bisogno di sempre nuove entrate e quindi anche di nuovi iscritti. Il rabbino in sostanza viene considerato come un dipendente, non come una guida spirituale cui dovrebbe essere data via libera per trascinare la comunita'. Non voglio essere visto come una fanatico, come un radicale, ma la mia personale impressione e' che il rabbino venga considerato uno dei tanti dipendenti. Penso invece che al rabbino si dovrebbe ricorrere per consultarlo e perche' dica una parola risolutiva e conclusiva perche'‚ lui, in fin dei conti, e' stato chiamato a guidare la comunita'.

Se considerare la comunita' come una ditta puo' avere i suoi vantaggi, tuttavia vorrei aggiungere che essa non puo' essere paragonata a una ditta commerciale: infatti, in fin dei conti, la ditta ha uno scopo di lucro, di guadagno, in altre parole, persegue scopi eminentemente materiali. Se noi guardiamo la comunita' da questo punto di vista, corriamo il rischio di degradarne il valore. Scopo della comunita'e' di mantenere viva l'identita' ebraica, anche se spesso i problemi economici finiscono per mettere in secondo piano i valori spirituali rispetto a quelli materiali e l'attenzione e' piu' rivolta al budget che alle cose che fanno di un gruppo una comuntia' ebraica, dove cio' che importa e che deve essere al centro delle attenzioni di tutti, la sua base principale, e' l'anima, l'identita' ebraica.

Voglio concludere il mio discorso dicendo che da molti anni, le attivita' culturali sono monocordi, parte di un unico filone: si parla sempre di antisemitismo, di olocausto. Io sono d'accordo che bisogna sempre ricordare quanto e' accaduto al nostro popolo durante la shoah (io stesso nella mia rivista Shabbat Shalom ho dedicato un certo spazio a questo argomento). Pero' voglio ricordare che ci sono altri argomenti.

Non dobbiamo vedere l'ebraismo solo dal punto di vista negativo, cioe' delle persecuzioni che hanno costellato il nostro passato. Dobbiamo cercare di mettere in evidenza gli aspetti positivi della cultura ebraica: i valori positivi, i valori morali che trovano espressione nelle nostre fonti: il Talmud, la Mishnah, la Halakhah, il Midrash, il pensiero ebraico etc.

Vorrei concludere con un appello ai dirigenti delle comunita' perche' collaborino di piu', di darsi vicendevolmente la mano, perche' insieme potremmo fare molto di piu' e meglio di quanto abbiamo fatto fino ad ora.

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