Rav Roberto Della Rocca

Considerata la complessita' e la vastita' dell'argomento, ritengo impossibile operare una sintesi che pretenda di affrontare ed esaurire tutte le problematiche. Ho pensato quindi di affrontare alcuni degli aspetti principali del rapporto rabbino-comunita' presentandoli in cinque nuclei distinti, al centro di ognuno dei quali ci sono uno o piu' spunti narrativi tratti dalla letteratura rabbinica e dal pensiero ebraico.

1. Trasformazione o continuita'?

Un giorno un anziano ospite della casa di risposo di Venezia mi confesso' bonariamente che non riusciva a capire come mai l'ebraismo fosse cosi' cambiato rispetto a cinquanta anni prima e che vedeva anche i rabbini di oggi comportarsi molto diversamente rispetto a quelli del suo tempo. Questa sua franca osservazione mi ha rammentato un famoso Midrash del Talmud babilonese, Menachot 29b; che racconta di Mose' che, salito sul monte Sinai trova il signore occupato ad attaccare delle coroncine alle lettere della Torah. Mose' chiede il senso di tutto questo e D-o risponde che verra' un giorno un uomo di nome Akiva' Ben Josef il quale dedurra' da questi puntini tante nuove Halakhot. Mose' chiede a D-o di poter vedere questa persona, e D-o gli concede di entrare nella scuola di Rabbi Akiva'.

Mose' si siede a uno dei banchi, non comprende assolutamente nulla della lezione che Rabbi Akiva' sta insegnando, e si sente molto abbattuto. Arrivati ad un certo punto, i discepoli chiedono a Rabbi Akiva' da dove egli deduca le sue argomentazioni e lui risponde e' una Halakha' che e' stata data a Mose' sul monte Sinai! solo allora Mose', rassicurato sulla continuita' della tradizione, si tranquillizza. Da questo Midrash emerge, fra l'altro, l'evidenza di come nell'ebraismo la Torah orale e quindi il contributo rabbinico, nella sua dinamicita', prevalgano sulla Torah scritta.

Akiva' supera cosi' Mose' nell'interpretazione, ma nello stesso tempo questa possibilita' infinita di interpretazione trova il suo limite in cio' che D-o ha dato a Mose'. Ne deriva che da Mose' ad Akiva' si e' meglio delineato il mondo dell'Halakha', pur nel rispetto della continuita'. Questo perche' quando nell'ebraismo si parla di Torah ci si riferisce non a un libro da leggere ma a un libro da vivere un libro che contiene in se' tutto il bagaglio di esperienze, di saggezza umana e, insieme di dubbi, problemi, interrogativi e interpretazioni che, dalla Torah e all'interno del sistema della Torah, traggono ispirazione.

La parte insostituibile apportata da ognuno di noi, al messaggio ricevuto fa si che questa ricchezza si manifesti soltanto nella pluralita' degli individui e delle generazioni. Ma il Midrash ci dice che l'apporto di ciascuno, in ogni epoca, si confronta con le lezioni di tutti gli altri, nel presente e nel passato. Dunque, la Torah non si accontenta di essere modello di riferimento, ma si propone come punto di partenza per un incessante sviluppo e come stimolo per un dialogo tra le generazioni. La Torah e' un testo aperto, teso per sua stessa essenza alla continua evoluzione. In tal modo, anche dal punto di vista meramente testuale, la Torah sceglie la vita: la Torah non accetta, infatti, la morte di se' come testo che sarebbe rappresentata dalla chiusura interpretativa di una conclusione dogmatica. Il nostro Midrash ci racconta come, per un favore divino, Mose' possa vedere le generazioni future ed udire le loro interpretazioni, senza pero' riuscire a comprenderle.

Quanto a noi, almeno, con l'aiuto di questa tradizione, possiamo contemplare le generazioni passate, comprenderne le interpretazioni ed utilizzarne l'esperienza. La rivelazione che noi, anello di questa catena ininterrotta, invochiamo ed otteniamo, nel nostro sforzo di interpretare e vivere la tradizione non solo equivale alla prima rivelazione ma e' anche superiore ad essa e abbraccia tutte le rivelazioni che si sono succedute da Mose' ai nostri giorni. Ma il Midrash prefigura anche lo iato che traspare fra rabbini e comunita' nell'ebraismo odierno.

E' indubbio che il rabbinato italiano sta attraversando oggi una fase di profondo cambiamento. Si sono delineati nuovi modelli di riferimento negli studi e nelle altre attivita' di competenza rabbinica. C'e' stato in gran parte delle comunita' un notevole ricambio generazionale: la maggior parte dei nuovi rabbini e' nata dopo la guerra, non ha vissuto l'esperienza delle persecuzioni ne' la nascita dello stato di Israele, e ha come modelli di riferimento realta' non soltanto Italiane.

Tutto cio' sta avendo conseguenze innegabili: l'ebraismo non e' visto piu' come cultura di reazione rispetto agli stimoli, negativi e distruttivi, del mondo esterno; si tende a uscire dagli schemi del provincialismo, che e' un difetto diffuso dell'ebraismo italiano. Oggi esistono oggettive possibilita' di scambio di esperienze con rabbini ed educatori di altri paesi; si riconosce l'importanza centrale dello studio della Torah. Tutto questo crea anche delle tensioni, in particolare per quel che riguarda l'osservanza delle Mizvot e la adesione all'Halakha'.

2. L'Halakha' come elemento fondate

Dal punto di vista concettuale, nel momento in cui ci si riferisce alla Torah intesa nella sua accezione piu' ampia, ognuno puo' scegliere la sua strada. Basta ricordare la conclusione celeste alle discussioni tra la scuola di Hillel e la scuola di Shammai: queste e quelle sono le parole del D-o vivente. Ma l'Halakha' e' secondo la scuola di Hillel. La norma di comportamento, e non solo l'etica e la storia, e' cio' che permette di chiamare ebraismo quel fenomeno di cui stiamo parlando. L'etica, innanzitutto, non e' certo retaggio esclusivo del popolo ebraico. Che ebraismo e' quello che non riconosce l'Halakha' come elemento fondante? E' possibile considerare l'Halakha' un elemento di valore pari alla storia, alla memoria, alla tradizione?

Io ritengo l'Halakha' il punto di partenza; certo non l'unico elemento su cui si fonda l'identita' ebraica, ma sicuramente il punto di partenza. Credo che l'Halakha' sia la garanzia della stessa pluralita' di aspetti garantita dall'ebraismo e nell'ebraismo; certamente non la negazione di questi. Se si vuole individuare fra i vari aspetti dell'ebraismo un momento unitario, e non solo in prospettiva storica o etica, si deve trovare un qualche punto di incontro nella prassi.

Credo che anche questo ritornare piu' volte sul concetto di pratica vista come forma vuota sia da approfondire, anche in termini puramente semiotici: nessuna pratica - ovvero nessun segno - puo' mai essere vuoto perche' inevitabilmente veicolo di significato; il contrasto tra contenuto e forma, tra dentro e fuori non mi sembra essere uno schema di interpretazione ebraico degli avvenimenti e delle azioni. L'interiorizzazione pura e semplice della Torah altro non e' che la sua abolizione, ed e' esattamente cio' che propugnarono tutte quelle correnti antinomistiche (il cristianesimo, il sabbatianesimo e, piu' tardi, la riforma) che finirono poi tutte per distaccarsi dall'ebraismo. Presentare l'ebraismo come un complesso di valori implica a mio avviso un altro errore: l'ebraismo e' una realta' collettiva, un uomo non puo' essere ebreo in quanto individuo a se'; egli e' viceversa ebreo in quanto appartenente alla comunita' del popolo che vive la Torah.

La conoscenza, la percezione, i valori appartengono a una dimensione generalmente suggestiva, che non lascia necessariamente spazio al rapporto collettivo e prescinde dalla necessita' della comunicazione e dell'interazione. Quel che e' percepito dal singolo e' realta' soggettiva e non e' oltre tutto comunicabile agli altri, poiche' il linguaggio non e' coestensivo con i sentimento e non sa comunicare emozioni e percezioni. Su concetti, percezioni e sentimenti non si puo' fondare il senso della collettivita', che si attualizza invece nella sfera dell'azione e della realizzazione comuni, ossia nella prassi oggettivata delle Mizvot. C'e' un racconto riportato in un libro di Elie Wiesel, Contro la malinconia che narra:

Quella note Rabbi Meir di Peremyzljany era solo con Rebbe Arie' suo amico. Il maestro meditava, Rebbe Arie' recitava i salmi. Fuori scendeva la neve, le strade parevano solchi. Il villaggio dormiva sotto il cielo che riluceva. A mezzanotte, Rabbi Meir sospiro' e, secondo la tradizione, si sedette per terra a piangere sulla distruzione del tempio e a lamentare l'esilio di D-o da un'eternita' all'altra. Nella stanza c'era freddo, ma Rabbi Meir non lo sentiva; il suo pensiero l'aveva tratto altrove. Nel silenzio del suo cuore mormorava: Fai presto D-o di Abramo, di Isacco e di Giacobbe; la tua pazienza non e' piu' una virtu'; noi tuoi figli siamo allo stremo. Guardaci, siamo estenuati, piegati dalla fatica, fiaccati. Fai qualcosa, signore. Se non per noi, fallo per amore del tuo nome...
All'improvviso Rabbi Meir si irrigidi': bussavano alla porta. Rebbe Arie' impallidi': Chi e', amico o nemico? Un emissario del diavolo o la sua vittima?.
Apri!
ordino' Rabbi Meir
Ma non sappiamo chi e'!
Apri ti dico!
Ma, Rabbi, se e' un ubriaco che vuole farci del male?
Apri, forse e' qualcuno che ha bisogno di aiuto. Un marito in ambasce, un padre disperato, un prigioniero un fuga, che aspetti ad aprire?.
Rebbe Arie' apri' e si trovo' di fronte un sodato che in Jiddish chiese il permesso di entrare.
Ho fame, disse.
Rabbi meir si precipito' in cucina e torno' con pane e latte che poso' sulla tavola. Il soldato mangio' in silenzio.
Dimmi fece Rabbi Meir, sembri affamato. In caserma non ti danno d mangiare?
Oh, si.
Ma allora?
Semplicemente il loro cibo non fa per me. Io sono ebreo, capite? Mi hanno arruolato di forza quando ero ancora bambino. Non aveva avuto il tempo di imparare cosa un ebreo deve o non deve fare. So soltanto che un ebreo deve mangiare Kasher. Percio' dovunque passi il mio reggimento cerco una casa di ebrei per mangiare Kasher, per ricordarmi che sono ebreo.
Rabbi Meir turbato si avvicino' alla finestra e contemplo' la neve che piano piano seppelliva il villaggio. Taceva poi sospiro' e disse: Arie, amico mio, ascolta, un giorno verra' il messia, e' sicuro. Ma verra' grazie a chi? Grazie a Meir? No! Grazie a te, forse? Nemmeno! Verra' grazie a questo soldato che bussa alle nostre porte per ricordarci chi siamo.

Anche secondo il racconto scelto da Wiesel, la pratica delle Mizvot e' il segno tangibile della volonta' di rimanere collegati all'ebraismo attraverso l'azione. L'Halakha' continua quindi a rappresentare il limite, la soglia fra un ebraismo che e' cultura e vita, fra un ebraismo proiettato nel futuro e un ebraismo che si rifugia eccessivamente nella contemplazione del proprio passato.

3. Rabbini e tradizione nella comunita' italiana

Io credo che le tradizioni proprie della nostra storia non possano essere considerate soltanto folklore, esse hanno un valore storico, di identita' e, non ultimo, legittimazione Halakhica. Ma, sempre in virtu' della non rigidita' dell'Halakha', non possiamo individuare nella tradizione italiana un valore assoluto e fondante, al solo scopo di crearci un alibi per la nostra mancanza di studio della Torah e delle fonti della nostra cultura. Quello italiano si e' ridotto a un ebraismo troppo etico e storico, ma privato del legame con quello che e' il suo testo originario.

E' su questo poi che si gioca il vero confronto tra l'ebraismo italiano attuale e gli altri ebraismi del mondo. Nel pianeta dei media e' impensabile l'isolamento, sarebbe un atto di presunzione che potrebbe comportare l'emarginazione dall'ebraismo mondiale. E dall'altra parte, i grandi maestri dell'ebraismo italiano tra questo e l'altro secolo (Margulis, Chayes, Elborgen) sono la cifra dello sforzo cosciente che fece quell'ebraismo di mantenere una valenza europea non restando ancorato ai miti del passato (Shadal, Reggio, Benamozegh).

L'ebraismo italiano e' in gran parte assimilato, ma soprattutto ignorante pur con varie sfumature e distinzioni, dei propri fondamenti culturali e religiose, perfettamente in linea con un'identita' mascherata, che continua a vivere tranquillamente nel compromesso tra un'ortodossia di facciata ed un riformismo di prassi, tra un conservatorismo di idee e una sostanza evanescente. Rav Menachem Emanuele Artom, z.l., nel 1976 in un articolo sulla R.M.I. dal titolo tentativi di riforma in Italia e analisi del fenomeno nel presente scriveva:

...gli ebrei italiani, vivendo in un ambiente cattolico e non protestante quale era per esempio la maggioranza della germania nel secolo scorso, sono stati piu' inclini a trovare naturale che la vita del clero fosse diversa da quella del laico, cioe' non chiedeva riforme alle norme tradizionali, che magari era bene, anche a parer suo che fossero seguite piu' o meno scrupolosamente dai preti (rabbini), mentre per se stesso, che non faceva parte del clero, non avevano piu' valore le innumerevoli regole religiose che trasgrediva senza cercare a cio' nessuna giustificazione teologica o ritualistica. In realta', ci si poteva allontanare da quell'osservanza che pero' si teneva a lasciare intatta. Basti pensare come le comunita' hanno continuato a dichiarasi fedeli alla corrente cosi' detta ortodossia ed anche praticamente hanno mantenuto questa linea in gran parte, mentre i singoli nella grande maggioranza non seguono ne' una linea ortodossa, ne' una linea riformata...

E' indubbio che la vittima principale di questa ambiguita', frutto dell'illusione emancipazionistica coltivata e caldeggiata dall'alta borghesia ebraica italiana, e' stato propria il rabbino, che ha visto minata la sua identita', delegato il piu' delle volte a ricoprire un ruolo a cui non veniva piu' riconosciuto alcuno valore o significato. Nascosti dietro il luogo comune per cui l'ebraismo ognuno lo interpreta a suo modo, comodo quanto banale, buona parte dell'ebraismo italiano sta andando alla deriva nell'inconsapevolezza, nell'ignoranza e nella confusione. Io non credo che l'ebraismo debba essere di un solo tipo, magari ortodosso e fondamentalista (accusa spesso rivolta con frettolosita' e cattiva coscienza a quei rabbini che svolgono il loro istituzionale operato). Credo pero' che sia doveroso essere quello che si e' consapevolmente e su basi culturali ed esistenziali meditate.

Questo all'ebraismo italiano nella sua maggioranza manca. Non si e' mai affrontata culturalmente e concettualmente in maniera seria questa questione, lasciando che l'ebraismo italiano mostrasse cosi' un volto diverso da quello suo vero. Siamo e non siamo ortodossi? Qual e' il nostro rapporto' con le forme tradizionali di studio della tradizione ebraica? Cosa intendiamo quando parliamo di Torah: cultura, etica, norma, oppure quello che gli ortodossi chiamano Torah?

E' chiaro quindi che persistendo in questa pericolosa mistificazione il rabbino diviene inevitabilmente non solo un esecutore e un testimone solitario di un sistema di vita estraneo ai piu', inascoltato predicatore di scomodi doveri ed elargitore di dispense da obblighi rituali, ma sara' sempre piu' svilito alla funzione di un intransigente e insensibile gendarme. D'altronde, l'alternativa sarebbe quella di un notaio compiacente strumentalmente interpellato per legittimare e avallare consolidate abitudini - talvolta in pieno contrasto con l'Halakha' - in nome di una malintesa antica tradizione.

4. Guardiani o maestri della legge?

C'e' un racconto di Kafka (inserito ne Il processo) che mi sembra possa essere preso come simbolo di una certa condizione di molti ebrei oggi: davanti alla legge c'e' un guardiano. Davanti a lui viene un uomo di campagna e chiede di entrare nella legge. Ma il guardiano risponde di non poterglielo permettere per il momento, forse in seguito e gli spiega che la legge e' un susseguirsi di stanze davanti alla porta di ognuna delle quali c'e' un diverso e terribile guardiano. Impressionato, l'uomo decide di attendere finche' non gli verra' concesso di entrare.

Dopo una inutile e interminabile attesa, quando sente che le forze lo stanno abbandonando, l'uomo trova il coraggio di chiedere al guardiano come mai, se tutti tendono verso la legge, nei lunghi anni che ha passato davanti all sua porta nessun altro e' mai venuto a chiedere di entrare. Anche il guardiano si rende conto che l'uomo sta per morire e cosi' gli dice: nessun altro poteva entrare qui perche' questo ingresso era destinato soltanto a te, ora vado a chiuderla. ecco spesso siamo come l'uomo di campagna, ci fermiamo all'esterno di quella porta che e' l'entrata della nostra specifica strada ebraica. Aspettiamo li' una vita, affascinati e al contempo distaccati dalla luce della legge, ma restiamo fuori, in attesa che le difficolta' che ci pone il guardiano (e' per noi un guardiano, purtroppo, piuttosto che un maestro), si risolvano da sole.

Ed invece la sfida da raccogliere sarebbe proprio quella di oltrepassare la porta nonostante le apparenti difficolta'. Sta a ciascuno di noi conquistarsi la legge che e' retaggio collettivo comune, superando gli ostacoli a volte fittizi, che ci separano da essa. Sono ostacoli interiori che manifestano la loro presenza piroettando all'esterno altri ostacoli, distanze e porte sprangate. Bisogna allora sforzarsi di cercare la chiave che apra le porte che ci conducono alla legge, cercando di vedere davanti a noi maestri e non guardiani...

Cio' dipende anche dai maestri che non devono presentarsi come guardiani, che sappiano spogliarsi dei loro abiti ufficiali, che siano capaci di parlare alla gente, di rispondere a domande e siano aperti al dialogo e non solamente a lezioni ex cathedra. I rabbini devono mostrare la massima disponibilita' verso tutti gli stimoli di qualsiasi provenienza, soprattutto sul piano dell'umano dialogo, ed e' loro compito far capire che si puo' far cultura con Torah e Talmud, almeno tanto quanto con la letteratura e la filosofia.

E' compito del rabbino essere rabbino di tutta la comunita', anche se questo non e' solo compito suo, spetta ai dirigenti della comunita' creare i presupposti perche' il rabbino sia il maestro di tutti, e cio' in termini di servizi religiosi e culturali anzitutto. Compito del rabbino e' quello di applicare l'Halakha' con coscienza e intelligenza, anche se cio' non deve significare necessariamente morbidezza e soprattutto amplificazione di cio' che la gente vuol sentirsi dire.

Ma e' il compito della comunita' favorire e sostenere il rabbino, e non solo formalmente, nel fissare e nell'adottare gli standard di applicazione dell'Halakha' nella comunita' stessa anziche' l'inverso, non senza che si tenga conto nei rapporti con il pubblico, della clausola Talmudica per cui non si puo' imporre piu' di cio' che il pubblico puo' reggere (Talmud babilonese, Bava' Batra' 60b). Se non si e' d'accordo su questo ruolo del rabbino come maestro di Halakha', egli puo' essere tranquillamente rimpiazzato da un tecnico del culto e da un dotto professore di ebraistica.

E allora si arriva al problema della rispettabilita' dei maestri e dei rabbini, nella loro capacita' di far vivere l'Halakha'; penso che anche su questo si debba in qualche modo riflettere: interpretare l'Halakha' e farla vivere puo' essere inteso in tanti e diversi modi. Da un parte c'e' la tradizione che si concretizza ad esempio nella produzione di Sheelot Utshuvot - Responsa che, con criteri di derivazione giuridica uniti ad una effettiva conoscenza del mondo moderno e delle problematiche dell'uomo da risposte normative ed esistenziali al contempo: dall'altra c'e' l'abbandono del concetto di Halakha' stessa per giungere a qualche cosa d'altro.

A questo punto deve essere dato il giusto rilievo: e' infatti vero che, secondo la tradizione ebraica Kocha' Dehettera' 'Adif...la capacita' di permettere e' preferibile... e cioe' il bravo rabbino non e' quello che dice sempre di no, ma colui che riesce di dire di si; e' chiaro tuttavia che il si va ricercato all'interno della tradizione dell'Halakha' e non al di fuori di essa, influenzati da pure esigenze contingenti. Dall'altra parte, credo che se le decisioni, anche impopolari o difficili vengono motivate con chiarezza ed onesta', chi rigetta la via dell'Halakha' non solo propone una soluzione su misura a un problema personale, ma chiede di fatto al rabbino di essere cio' che egli non e'.

Risposte praticabili possono essere di vario genere, forse dipende anche da quanto e' rigida e talvolta precostituita l'aspettativa di chi pone la questione, da quanto quest'ultimo e' veramente aperto ad ascoltare e ad apprendere. I dirigenti comunitari dovrebbero rivedere quel frequente atteggiamento di malcelata antireligiosita' in nome di un universalismo laico che svuota di universalita' quello stesso ebraismo in nome del quale si intende operare.

Non e' sufficiente, per quanto importante, sostenere e garantire la continuita' ebraica in occasione di convegni e riunioni pubbliche, considerandola invece, nell'intimo, un'attivita' speciale da delegare e scaricare a qualcun altro. Quando la cultura ebraica rimane essenzialmente passiva, non frequentemente vissuta, un'esperienza vissuta da spettatore, o un semplice processo di conoscenza, finisce col divenire irrilevante perfino banale quando viene paragonata alla cultura dominante in cui viviamo.

5. Lo studio come sfida all'estinzione nel Talmud babilonese, Temura' 16a

Si racconta che il giorno del lutto per la morte di Mose', vennero dimenticate tremila Halakhot. Fu chiesto a Giosue': Chiedi aiuto allo spirito profetico per ritrovarli! ma lui rispose: la Torah non e' in cielo.. Fu chiesto a Samuele: Chiedilo tu! ed egli rispose: Nessun profeta ha piu' il diritto di rinnovare la Torah!. La stessa richiesta fu rivolta a Pinechas e a Eleazar; tutti risposero allo stesso modo e conclude il Midrash che l'enigma delle tremila Halakhot dimenticate sussiste ancora ai nostri gironi. Secondo Rav S.R. Hirsch, questo ci insegna, che solo la Chochma' e non la Nevua', cioe' lo studio basato sul testo e sulla tradizione e non lo spirito profetico hanno valore nei confronti degli insegnamenti e dell'essenza della Torah.

Anche l'ebraismo italiano ha dimenticato molti Halakhot, nessun profeta e nessun rabbino con la bacchetta magica potranno restituirci le Halakhot dimenticate ma solo lo studio. Lo studio come superamento della lettera, solo in questo modo e' ammessa quella polivalenza esegetica dello stesso versetto, dello stesso personaggio biblico e perfino dello stesso evento fondatore. Lo studio della Torah come possibilita' umana e non come privilegio, come assunzione di responsabilita' e non come diritto acquisito.

Lo studio e la conoscenza della Torah non sono valori di natura, che l'ebreo trova a sua disposizione bensi' sono valori che l'ebreo deve conquistarsi e coltivare con amore e con umilta', spesso anche con grandi sacrifici, come quello del nostro grande rabbi Akiva', colui che, nel nostro primo Midrash, ha superato Mose' il primo maestro del popolo ebraico pensate, lui, un convertito all'ebraismo. Possiamo allora comprendere quel drammatico e terribile Midrash che spiega perche' il nostro patriarca Isacco prediligeva Esau' a Giacobbe.

Malgrado da Esau' discendera' Amalek, Haman, l'Impero Romano e tanti altri terribili nemici del popolo ebraico, e' proprio dalla stirpe di Esau' che nascera' Rabbi' Akiva'. Isacco nella sua cieca preveggenza aveva intuito tutte le sofferenze che sarebbero derivate da Esau', ma l'acquisizione al popolo ebraico di un Talmid Chacham come Rabbi' Akiva', dice il Midrash, vale anche le grandi sofferenze che dallo stesso esau' sarebbero scaturite. Quindi a noi ebrei italiani accettare la stessa sfida, ricominciamo a studiare.

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