Rav Richetti

Per parlare della mia esperienza all'interno della problematica Il rabbino per la comunita' o una comunita' per il rabbino, devo premettere che io sono sempre cresciuto in ambiente rabbinico. Il mio nonno era rabbino capo di Milano, ho seguito il suo lavoro per alcuni anni, ho visto le conseguenze degli anni in cui lui purtroppo non era in grado di lavorare. Io lo assitevo quindi vedevo cio' che lui avevo fatto e forse questo e' stato uno egli elementi che mi ha spinto verso i studi rabbinici.

Fin dall'inizio, pensavo che avrei lavorato per una comunita' italiana che era la realta' che conoscevo meglio. Dall'esempio di mio nonno avevo imparato molte cose: il rispetto, il cavod che gli veniva tributato, la sua capacita' di avvicinare la gente, pur mantendo un'aura un po' particolare, quasi irrangiungibile per il popolo. Tutto questo mi aveva colpito e mi aveva entusiasmato.

Quando poi ho ottenuto la Semichah rabbinica in Israele, mi sono trovato di fronte alla possibilita' di lavorare come rabbino capo di Trieste e mi sono trovato di fronte a una situazione che era molto cambiata in Italia, ma forse anche altrove. Soprattutto, nel rabbino non si vedeva piu' la figura carismatica che parlava da un pulpito e dispensava carezze ai bambini e poneva attenzione ai problemi della gente, magari rispondendo con una sola parola: si, no, speriamo. Era qualcosa di molto diverso. Si trattava di esserci in prima persona e poi di lavorare e di rimboccarsi le maniche perche' ci fossero nelle comunita' le strutture minime per la sopravivenza non solo della comunita', ma del rabbino stesso.

In pratica, se il rabbino voleva mangiare Casher, doveva organizzarsi perche' ci fosse la Casherut, perche' le comunita', da questo punto di vista, latitavano. E qui mi sono posto la domanda: che cos'era che mancava, cosa si doveva fare: il lavoro per la comunita' oppure il lavoro per il rabbino, cioe' il lavoro necessario per creare o rafforzare le strutture comunitarie necessarie affinche' il rabbino possa continuare a vivere nella comunita' e permettere alla comunita' stessa di avere un rabbino. In realta', erano tutte e due le cose. Non c'era differenza. La differenza consisteva solo in questo: se la comunita' era come quella di trieste negli anni in cui io vi sono stato e, come vedo, anche successivamente, una comunita' disponibile, cioe' pronta a ricevere per se stessa qulle strutture che servivano al rabbino per rimanere al suo posto e quindi continuare a dare anche agli altri.

A trieste ho trovato questo: tante cose sono state fatte ai miei tempi, tante altre cose sono state fatte successivamente da Rav Grassini, attualmente da Rav Kelman, Perch‚ la comunita' man mano ha capito che non si trattava di un capriccio del rabbino: si trattava molto piu' semplicemente di tante cose, ognuna delle quali era utile per continuare ad essere una comunita' ebraica che, soprattutto oggi che le distanze si stanno annullando, dev'essere integrata nell'insieme delle altre comunita', avendo delle strutture che permettono a un ebreo di qualsiasi provenienza di trovarsi a suo agio a Trieste, come a Bologna o a Parigi. Questo e' cio' che alcune comunita' capiscono; altre oggi un po' meno.

Ho preso l'esempio della Casherut, ma potevo citarne tanti altri. Tante cose sono state fatte a trieste: un nuovo Mikveh, un adeguamento del Bet Haknesset, un insieme di prodotti Casher disponsibili per tutti quanti. A suo tempo, io avevo fatto in modo che la comunita' avesse la posibilita' di vendere libri di argomento ebraico per chiunque fosse interessato e cosi' via.

Queste sono strutture basilari. Sono arrivato poi a Milano come vice del rabbino capo e ho trovato una situazione molto diversa da quella di Trieste, ma anche molto diversa da quella che avevo lasciato quando ero partito per Israele. Quando sono partito da Milano, effettivamente, come si sente dire di tante altre Kehilot, a Milano in pratica la Shemirat Mizvot era affidata al rabbino e a pochi altri singoli, mentre per gli altri non c'erano strutture. Quando io sono tornato quasi sei anni fa a Milano, ho trovato una comunita' organizzata, strutturata, fornita di mezzi che consentono a chiunque di poter osservare le Mizvot.

E la cosa e' ancora andata migliorando con il tempo, fino a questi ultimi giorni in cui si sta svillupando un insieme di strutture sempre migliori, sia nel ramo delle Casherut, sia in quello delle pubblicazioni, grazie anche all'attivita' di Rav Behor. Anche qui, la domanda e' se il rabbino serve alla comunita' o la comunita' al rabbino. La domanda, me ne rendo conto, e' provocatoria. La risposta deve essere: ne' l'uno ne'‚ l'altro e tutti e due insieme, perche' il rabbino e' necessario alla comunita', e la comunita' deve sentirlo tale, ma il rabbbino ha bisogno della comunita' per essere se stesso e poter dare.

Concludo citando un brevissmo racconto Hassidico. Un Rav girava lo Shtetl dicendo alla gente:

Sono pieno di risposte. Fatemi domande.

Rav elia richetti, vicerabbino capo di Milano
gia' rabbino capo della comunita' ebraica di Trieste

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