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ago 19, 2002 |
Aspetti di vita ebraica,  |
redazione

Un'opinione sull'adozione

A differenza di molte altre culture, l'ebraismo non definisce con molta precisione l'istituto giuridico dell'adozione.Questo sia nella Bibbia che nella legislazione rabbinica successiva. La cosa puo' stupire, se si considera invece l'importanza che la legislazione ebraica da' a tutto cio' che riguarda la famiglia. Ma vediamo in che modo si pone il problema.

L'assenza di un sistema di inquadramento preciso non significa tuttavia che l'adozione (in ebraico: Immu'tz) sia un fenomeno assente nell' Ebraismo; e' piuttosto il segno di un rapporto diverso.

Gli studiosi della Bibbia hanno tentato di trovare tracce dell'istituto dell'adozione in numerosi episodi. In realta' i casi veramente riferibili all'adozione sono due. Il primo e' nella storia di Mose' che la figlia del Faraone prende con se': "il bambino crebbe [dopo l'allattamento] e [Jocheved] lo porto' alla figlia del Faraone e fu per lei come figlio" (Esodo 2:10). In conseguenza di questa adozione Mose' cresce come egiziano nella corte faraonica, ricevendo anche un rango principesco. L'altro caso e' nella storia di Ester; di Mordechai e' detto che "allevava (wajhi ome'n) Hadassa', cioe' Ester figlia di suo zio, perche' non aveva padre e madre ... e quando le erano morti il padre e la madre Mordechai se l'era presa come figlia" (Ester 2:7).

I termini "tecnici" collegati all'adozione, che risultano da questi due brani sono: il verbo omn, che indica l'allevamento, e il prendersi, o l'essere per qualcuno come figlio. Queste espressioni la troviamo anche in altri episodi biblici: in Genesi 48:5, Giacobbe rivendica come suoi figli Efraim e Menashe', figli di Giuseppe (li hem, " sono miei"), conferendo loro gli stessi diritti ereditari degli altri figli di Giacobbe; in Ruth 4:16-17 Naomi prende il primogenito di Ruth, gia' sua nuora, se lo pone in seno, e ne diventa l'allevatrice (watehi lo leomeneth), e le vicine dicono "e' nato un figlio a Naomi". Si noti come in questi due ultimi casi le madri naturali (Asenath l'egiziana, moglie di Giuseppe e Ruth la moabita) non sono ebree di nascita, per cui questa sorta di adozione giuridica puo'essere intesa anche come una forma di integrazione nell'Ebraismo della prole.

Queste considerazioni introducono ad uno dei punti essenziali del problema dell'adozione nell'Ebraismo. A differenza di altri sistemi giuridici, dove un atto di adozione puo' cancellare il rapporto giuridico naturale, e instaurarne uno nuovo, per cui l'adottato e' in tutti i sensi figlio dei nuovi genitori, questa possibilita' non e' ammessa nell'Ebraismo. Lo status di un individuo si acquisisce alla nascita. Se la madre e' ebrea, il figlio e' ebreo; se il padre e' Cohen e si unisce con una donna a lui consentita, il figlio e' Cohen; se viene adottato in una famiglia di ebrei non sacerdoti, non perde per questo la condizione sacerdotale; cosi come un Cohen che adotta un ebreo normale, non puo' conferirgli la dignita' sacerdotale, e un ebreo che adotta un bambino di nascita non ebraica non gli conferisce automaticamente con l'adozione la condizione di ebreo.

Il legame familiare originario stabilisce pertanto un'identita' che non puo'essere perduta, ma che va registrata e ricordata. Nel diritto ebraico, con particolare importanza nel diritto matrimoniale, e' fondamentale il riconoscimento di identita' naturale, soprattutto per impedire possibili unioni incestuose tra consanguinei (per esempio tra fratelli e sorelle).

Dal punto di vista etico, l'adozione di un bambino che non ha genitori, o che e' stato abbandonato dai suoi genitori e' considerato un atto molto nobile; e "chi alleva un orfano in casa sua e' come se l'avesse procreato". Nel corso della storia ebraica l'istituto dell'adozione e' stato diffuso, soprattuto come forma di protezione sociale nei confronti di bambini della comunita' rimasti orfani. Ma non mancavano neppure, per quanto rari, casi di bambini che venivano abbandonati dalle madri dopo parti clandestini, e dei quali la comunita' si prendeva carico; il fatto che un neonato fosse abbandonato in ghetto sulla porta di una sinagoga, piuttosto che alla ruota di un convento, veniva considerato dalle autorita' civili come prova della sua origine ebraica. Nell'ultimo secolo si sono poi moltiplicati in tutto il mondo casi di coppie senza figli che hanno cercato un bambino per completare la loro vita familiare, e molto spesso questi bambini sono di nascita non ebraica.

Dal punto di vista strettamente giuridico si pongono numerosi problemi, piu' o meno "tecnici". Per esempio, quale debba essere il nome di una persona adottata, visto che nell'Ebraismo le persone vengono indicate prima di tutto con il patronimico (e in alcuni casi con il matronimico): peloni/ith ben o bath peloni/ith "il/la tale figlio/a del/la tal'altro/a". Proprio il principio etico che assimila il padre adottivo al padre naturale viene in questi casi usato in senso giuridico, per cui nelle manifestazioni pubbliche (come la salita a Sefer) la persona viene chiamata col patronimico dell'adottante. In documenti ufficiali piu' riservati, come la Ketubba', il contratto nuziale, si usa generalmente aggiungere al patronimico adottivo la dizione hamegadl, "che lo fa crescere".

Se il bambino adottato e' di nascita non ebraica, e' dovere dei genitori farlo diventare ebreo. La procedura e' quella del bagno rituale, preceduta per i maschi dalla circoncisione. Con questo il bambino non e' ancora pienamente ebreo, perche' e' necessaria una piena e cosciente adesione all'Ebraismo, che puo' essere fatta (o negata) al momento della maturita', i tredici anni per i maschi e i dodici per le femmine.

Queste regole pongono delle difficolta' molto complesse, di cui si deve far carico, insieme alla famiglia, il Tribunale Rabbinico locale. Se ad esempio i genitori naturali del bambino sono noti, si pone il problema della loro eventuale autorizzazione alla procedura di conversione. Ogni atto della procedura va poi controllato formalmente dall'intero Tribunale. La difficolta' piu' grande e' quella dell'impegno all' educazione ebraica. Secondo la norma tradizionale, su cui molto si insiste in questi ultimi anni, dopo periodi di grave e pericolosa trascuratezza in molti ambienti, la conversione di minori all'Ebraismo ha senso e puo' essere eseguita solo se esistono le garanzie per una educazione all'osservanza globale delle Mizwoth. Non ha senso fare diventare ebrei persone alle quali non si garantisce un'educazione piena alla Torah. E questo e' possibile solo in famiglie dove si realizzi la piena ossservanza, che venga trasmessa come modello ed esempio. Di qui la problematicita' dell'accettazione della conversione di un minore adottato in una famiglia che non e' osservante.

La letteratura giuridica dell'ultimo secolo si e' arricchita di discussioni e problemi che riguardano l'adozione, e che qui possono essere solo accennati: le obbligazioni dei genitori adottivi nei riguardi dei figli adottivi, anche con riferimento agli aspetti economici ed ereditari; e gli obblighi degli adottati nei confronti dei genitori adottivi (ad esempio: bisogna far lutto? si dice per loro il Kaddish? a queste due domande la risposta e' positiva). Un altro problema del tutto particolare e' se sia consentito il matrimonio tra figli naturali e adottivi, o tra figli adottivi di genitori naturali diversi adottati nella stessa famiglia; cosa teoricamente permessa secondo le fonti piu' antiche, ma considerata proibita da alcuni decisori piu' tardi, per motivi di apparenza, essendo gli adottati formalmente considerati come fratelli naturali.

In questi ultimi tempi si e' posto un nuovo problema: se l'adozione sia consentita a un genitore "single". Si potrebbe rispondere a questa domanda, considerando la normativa che regola la divisione dei figli in caso di divorzio. Esiste in proposito un principio generale, per il quale le figlie minori rimangono con la madre, e i figli minori restano con la madre fino a 6 anni, e poi vanno con il padre; questo perche' si suppone che in eta' minore, e soprattutto fino a 6 anni i piccoli abbiano piu' bisogno della madre che del padre; dopo i 6 anni per i maschi il principio cede alla necessita' dell'educazione religiosa, perche' e' il padre investito direttamente dell'obbligo di dare un'educazione religiosa al figlio maschio. Ma si tratta di un principio generale, che i giudici possono applicare in maniera molto differente, considerando le condizioni familiari e le attitudini dei due genitori che divorziano.

Alla luce di queste considerazioni appare che mentre e' ovvio che la situazione ideale e' sempre quella di una coppia di genitori in armonia, e' possibile un ruolo separato, in base all'eta' e al sesso del bambino; nel senso che una donna "single" potrebbe avere le capacita' di prendere con se' un piccolo, minore di 6 anni, maschio o femmina, sempre che ne possa garantire le condizioni di un sereno sviluppo; molto meno lo potrebbe fare, in linea di massima, un uomo, al quale tuttalpiu' potrebbe essere affidato un bambino di eta' superiore ai 6 anni. Ma le garanzie da chiedere per un armonico e sereno sviluppo dovrebbero essere molto rigorose, e ogni situazione particolare non puo'essere generalizzata.

Rav Riccardo Di Segni