L'ultimo libro dello psichiatra Abraham Twerski Il mio affetto ti salvera'Le buone azioni possono guarire? I piccoli atti d'affetto e di dedizione che siamo capaci di compiere sono vere e proprie medicine? Il professor Abraham J. Twerski, considerato uno dei piu' autorevoli psichiatri americani, se ne dice convinto. Agli studenti dei suoi corsi, nella prestigiosa School of Medicine dell'universita' di Pittsburgh, il professor Twerski insegna come ascoltare i malati piu' gravi secondo una logica antica, che si appoggia solo parzialmente sugli ultimi ritrovati tecnologici e meno ancora sull'azione degli psicofarmaci. Nel Gateway Rehabilitation Center, l'organizzazione senza scopo di lucro da lui fondata per sottrarre migliaia di sventurati al vortice della droga e dell'alcol, dimostra ogni giorno all'opinione pubblica e agli studiosi che le sue teorie funzionano. Il suo libro piu' recente, pubblicato in queste ultime settimane, appassiona un pubblico sempre piu' a caccia di strumenti che possano restituire significato alla vita nella disincantata societa' occidentale e di risposte agli interrogativi sollevati dalla devianza e della malattia. Quando lo s'incontra, ci si rende presto conto che la ricetta del professor Twerski proviene piu' dalla tradizione familiare che dalle sue prestigiose esperienze universitarie. Il docente, infatti, e' discendente di uno dei fondatori del movimento Chassidico, erede di una filosofia di cui si sente portatore a pieno titolo e cui da' applicazione nella sua pratica quotidiana di medico. Il messaggio della Torah e quello della tradizione mistica ebraica possono risanare? In Do unto others - how good deeds can change your life, agire per gli altri: come le buone azioni possono cambiare la vostra vita (ed. Andrews Mcmeel), Twerski ne offre una lunga serie d'appassionanti dimostrazioni pratiche. Il libro si apre con il racconto di un'esperienza che lo avrebbe segnato per tutta la vita. Giovane psichiatra in un grande ospedale pubblico americano, Twerski, allora all'inizio della sua carriera, aveva il compito di accogliere i gruppi di studenti di medicina che visitavano il reparto. Durante una di queste visite, il rabbino mostro' ai visitatori un uomo di 52 anni affetto da una grave forma di schizofrenia. Durante il lungo periodo del suo ricovero non aveva mai pronunciato una sola parola. Il paziente rispettava quotidianamente con la massima regolarita' un copione che si era imposto da solo. Dopo la prima colazione occupava un posto in un angolo della stanza e assumeva una posizione assurda e contorta, con le mani protese davanti a se'. La scena non mutava fino all'ora del pranzo, quando l'uomo si concedeva una breve interruzione. Dopo essersi rifocillato tornava nella stessa posizione fino alla cena e quindi ancora, fino a quando gli infermieri non lo portavano a dormire. Né i farmaci, né l'elettroshock, né una terapia basata sul linguaggio si erano dimostrati capaci di alterare la situazione. La situazione resto' immutata fino a quando uno studente di medicina chiese il permesso di parlare con il paziente. Lei deve essere molto stanco - disse il giovane al malato che restava come paralizzato nella sua posizione assurda - vada a sedersi per un poco. Restero' io al suo posto - aggiunse lo studente cercando di imitare la contorta posizione dello schizofrenico - lei vada pure a sedersi. Sotto lo sguardo stupito del giovane psichiatra, senza dire una parola il malato si mosse per la prima volta da mesi dal suo posto e ando' a sedersi. forse - scrive oggi Twerski - quell'uomo credeva di dover sostenere l'universo, era convinto di non potersi muovere per non far crollare il mondo. ma in tutti quegli anni nessuno aveva mai capito il dramma di quella persona, quale significato le sue azioni potessero rivestire per lui, fino a quando uno studente non gli ando' vicino per compiere la mitzvah di trasmettergli un momento di attenzione e consentirgli un poco di sollievo; solo un episodio, fra i tanti narrati, che serve secondo Twerski per ricordare alla gente come la tendenza a compiere atti di bonta' appartiene ad ognuno di noi. lavorando con i miei pazienti - spiega lo psichiatra - cerco di approfondire la natura della spiritualita' umana. Noi abbiamo un'essenza fisica che appartiene al mondo animale e siamo in grado di compiere tutto quello che gli animali fanno. Ma non ci fermiamo li'. Siamo anche capaci di vivere una vita spirituale. L'inizio di ogni spiritualita' - aggiunge il rabbino - si verifica quando smettiamo di concentrarci su noi stessi e cominciamo a pensare di fare qualcosa per gli altri. Per questo noi ebrei diciamo: 'se non ci fosse nessuno da aiutare, come potremmo mostrare la nostra umanita'?'. Esagerazioni? Sulla base della sua esperienza di scienziato, il Rav Twerski mette in guardia dal pericolo di sottovalutare ogni il minimo atto di generosita'. Anche le azioni piu' microscopiche, piu' impercettibili - afferma lo psichiatra sulla base scientifica della cosiddetta 'teoria del caos', hanno un loro effetto profondo, cosi' come il battito d'ali di una farfalla in messico crea una corrente d'aria che lambisce l'australia. Ma do unto others costituisce anche un forte richiamo per la societa' occidentale, nuovamente ispirato alla tradizione ebraica, secondo la quale un malato o una persona sofferente non deve mai essere lasciata sola, soggiacendo al timore di guardare in faccia il dolore o la morte. Twerski ricorda a questo proposito una drammatica esperienza vissuta come rabbino della sua comunita'. Una chiamata d'emergenza lo aveva costretto a precipitarsi a casa di una coppia di conoscenti. La loro figlioletta piu' piccola era appena annegata nel lago non lontano dall'abitazione. La madre, che era presente alla sventura e aveva la responsabilita' di sorvegliare la bambina, era devastata dal dolore e dal senso di colpa. Durante la settimana di lutto riusci' a piangere solo quando, dopo molti giorni, gli amici e i parenti lasciarono l'abitazione e la donna rimase sola con il marito e il rabbino. Allora comincio' a domandare disperatamente il perché di quanto era accaduto. Twerski non riusciva a trovare risposte e resto' muto al suo fianco, paralizzato da una sensazione di impotenza, ascoltandola per quattro giorni. Il quinto giorno ricevette una sua telefonata di ringraziamento. Non potevo capire - racconta il rabbino - di cosa mi volesse ringraziare. Non avevo potuto fare nulla per lei. Poi mi sono reso conto che quella donna soffriva doppiamente. Per la perdita di sua figlia, naturalmente, ma anche per l'isolamento che inavvertitamente le era stato imposto dai parenti e dagli amici. Ero l'unico a non avere la pretesa di fare qualcosa per lei e forse proprio per questo l'unico con cui potesse sfogarsi. Oggi - conclude lo psichiatra - consiglio sempre gli amici di coloro che portano il lutto di non lasciare ma soli i loro cari: sedete, ascoltate. Lasciate che la vostra presenza sia percepita. Talvolta questo e' il piu' grande dono che possiamo offrire a qualcun altro. niente di piu' che comunicare in silenzio, restare accanto a loro. Guido Chaim |