1.2. Dal diritto all'uguaglianza al diritto alla diversita'. L'ebraismo come ordinamento giuridico.Come si vedra' meglio nel prossimo capitolo, dall'unita' del Paese fino alla proclamazione della Repubblica, in Italia si sono succeduti diversi indirizzi politici in materia di rapporti tra Stato e confessioni religiose, in connessione con la diversa percezione che, di volta in volta, e' stata posta alla base del significato e della portata attribuiti al diritto di liberta' religiosa. Esso, come tutti i diritti di liberta', trova il proprio presupposto fondamentale nel piu' generale principio di uguaglianza, e non e' un caso che l'indirizzo politico del secolo scorso sia stato caratterizzato da una speculazione giuridica finalizzata alla ricerca ed elaborazione sistematica dell'uguaglianza dei diritti1. Ma, cosi' come non possiamo mettere in dubbio che, nell'Italia liberale, con l'adozione del sistema separatista tra Stato e Chiese si sono compiuti passi decisivi verso la generale parificazione dei culti ed il raggiungimento dell'uguaglianza tra le confessioni, non dobbiamo trascurare il fatto che il concetto di liberta' religiosa nello Stato di fine Ottocento ed inizio Novecento ha avuto un contenuto puramente negativo, di liberta' dallo Stato, come corollario del disinteresse di parte statuale per il fenomeno religioso: conseguentemente, l'uguaglianza che ne e' scaturita e' stata, a propria volta, necessariamente soltanto formale. Era, insomma, ancora di la' da venire la fondamentale presa di coscienza, propria del contemporaneo Stato di diritto, che la uguaglianza puo' essere veramente tale solo nel momento in cui la si viene ad intendere nel senso sostanziale del termine, e che, cosi' correttamente configurata, non puo' essere di certo conseguita ne' continuando a disinteressarsi delle disuguaglianze di fatto gia' esistenti ab initio tra i diversi soggetti, ne' con la forzata reductio ad unum di realta' fra di loro non assimilabili, poiche' la piu' grande disuguaglianza e' proprio quella che deriva dall'uguale trattamento di istituti e situazioni di per se' disuguali2. La sola constatazione che una determinata regolamentazione sia vantaggiosa per un determinato gruppo, infatti, non e' un elemento sufficiente a garantire che l'estensione di tale regolamentazione ad altre collettivita', magari differentemente caratterizzate, non si possa trasformare in una grave limitazione per queste ultime. Proprio per questo, il raggiungimento dell'uguaglianza formale dei culti ha segnato solamente l'inizio, per l'ebraismo italiano, della lotta per la conquista di quello che e' stato efficacemente definito come il "diritto alla diversita'"3, da intendersi come "il diritto che ciascun essere e ciascun gruppo ha di conservare la propria individualita' e di vederla dagli altri rispettata"4, o, molto piu' semplicemente, come il diritto di essere ebrei e come tali poter liberamente vivere, necessario corollario del riconoscimento dell'uguaglianza dei diritti5. Nell'elaborazione giuridica contemporanea, uguaglianza e diversita' non costituiscono piu' due poli necessariamente opposti ed inconciliabili, ma vengono piuttosto a confluire nel diritto alla uguaglianza nella diversita'6, che, a ben guardare, altro non e' se non lo stesso diritto di uguaglianza visto sotto il profilo sostanziale di cui si diceva poc'anzi. Non si tratta semplicemente di una conclusione raggiunta con l'ausilio di un gioco di parole o di un mero artifizio retorico: la volonta' del legislatore Costituente di prendere le distanze non solo dal giurisdizionalismo del regime fascista, ma anche dallo Stato liberale di fine Ottocento, ha dato vita ad una Carta costituzionale ispirata - oltre che all'abbandono della concezione meramente garantista dei diritti di liberta'7, ed alla esaltazione del contenuto positivo che essi possono cosi' acquistare -, a valori di diffuso pluralismo confessionale ma anche giuridico, sociale ed istituzionale. E proprio il rispetto e la valorizzazione dell'identita' e del patrimonio sociale e culturale insiti in ciascun gruppo - considerati ora come fattori di arricchimento della realta' sociale del Paese nel suo complesso, piuttosto che come elementi di devianza -, insieme al riconoscimento della possibilita' dell'esistenza, all'interno dello stesso ordinamento dello Stato, di una pluralita' di ordinamenti giuridici8 aventi anch'essi carattere originario - in quanto non derivati da quello di parte statuale -, sono dirette espressioni del pluralismo in parola. In particolare, il pluralismo giuridico si pronuncia contro l'esclusiva statualita' del diritto, nel senso che esso non e' (piu') solamente ed esclusivamente il prodotto dell'apparato dello Stato - che non viene piu' considerato il centro del sistema -, ma anche di ogni altro gruppo sociale, per modeste che siano le sue dimensioni e strutture organizzative: ubi societas, ibi ius 9. Un insigne maestro del diritto pubblico come Santi Romano ha avuto modo di definire l'ordinamento giuridico come un corpo sociale dotato di proprie regole di organizzazione e proprio diritto, un'unita' collettiva costituita con carattere di permanenza, che non muta col variare dei singoli soggetti - accomunati dall'identita' di interessi perseguiti - che ne fanno parte10; esistono ordinamenti giuridici ad appartenenza necessaria, come quello dello Stato in cui si vive, ed altri ai quali il singolo e' libero di scegliere se appartenervi oppure no, ma quello che preme qui sottolineare e' che il carattere dell'appartenenza facoltativa ad un determinato ordinamento, di per se' nulla toglie alla giuridicita' dell'istituzione. Esposto per sommi capi il concetto qui accolto di ordinamento giuridico, possiamo subito constatare come le confessioni religiose ben si prestino ad essere collocate in tale realta'. Esse, infatti, si inquadrano in un ordine proprio, quello della spiritualita', che e', per ogni verso, autonomo ed indipendente rispetto a quello dello Stato, con il quale solo occasionalmente e marginalmente possono venire in contatto, quando si tratta di stabilire la regolamentazione delle cosiddette materiae mixtae11; le loro norme di appartenenza e di organizzazione costituiscono l'espressione di un fenomeno di coagulazione sociale spontanea, produttivo di qualificazioni normative esclusivamente proprie e non predeterminate dallo Stato 12; siamo percio' convinti della loro inquadrabilita' nel vasto ambito degli ordinamenti giuridici originari. Di cio' ha dimostrato di avere preso coscienza il legislatore, il quale, con la previsione di cui al secondo comma dell'art. 8 dalla Costituzione, ha esplicitamente riconosciuto alle confessioni religiose diverse dalla cattolica il potere di autodeterminazione, ovvero la facolta' di stabilire autonomamente norme, la cui efficacia potra' venire a dispiegarsi non solo nei confronti di ogni singolo fedele appartenente alla comunita', ma, ove si renda necessario, anche nei confronti dello stesso Stato, attraverso l'organizzazione sulla base di statuti interni ad ogni confessione, con il solo limite del non contrasto degli stessi con l'ordinamento statuale. Bisogna dire che proprio il limite in parola e' stato piu' volte preso in considerazione, da una dottrina ormai datata, per dare corpo all'affermazione secondo la quale la sola Chiesa cattolica darebbe vita ad un ordinamento originario ed autonomo, mentre quelli delle confessioni religiose diverse dalla cattolica, proprio in virtu' di detto limite, sarebbero di carattere derivato dall'ordinamento statuale e percio' da esso, in ogni caso, dipendenti13. Sennonche', a parte la considerazione del fatto che il limite del non contrasto con i principi dell'ordinamento giuridico italiano va riferito, secondo l'opinione oggi accreditata14, anche alla stessa Chiesa cattolica, nel senso che i suoi atti non possono produrre effetti lesivi sul patrimonio di diritti fondamentali costituzionalmente garantiti ad ogni cittadino 15, non bisogna confondere il carattere dell'originarieta' con quello dell'assolutezza. Il limite in parola, infatti, fa parte del normale complesso di limitazioni che un ordinamento assoluto, quello dello Stato, oppone agli ordinamenti - originari anch'essi, ma non assoluti -, che vengono a trovarsi ad operare sul suo territorio, tenuti cosi' ad assoggettarsi alle norme fondamentali ed all'organizzazione generale di questo; la sola constatazione che, di fronte all'ordinamento statuale, essi possano sembrare minori, limitati per qualche verso, o piuttosto particolari, non li priva assolutamente del carattere dell'originarieta', dal momento che e' ciascuno di essi, nell'esercizio della propria autodeterminazione, che stabilisce i criteri di appartenenza al consesso, e, prima ancora di determinare una normativa sostanziale, pretende di fissare esclusivamente, anche in conflitto con lo Stato, i confini della propria competenza16. Lo stesso terzo comma dell'art. 8, del resto, con l'introduzione nel sistema italiano di un istituto di portata rivoluzionaria come il principio pattizio tra Stato e Chiese, implica per cio' stesso il riconoscimento dell'alterita' e dell'autonomia degli ordinamenti confessionali da quello dello Stato, che si configura come sovrano nell'ordine temporale, ma incompetente in quello spirituale, nel quadro di un pluralismo confessionale in cui la liberta' religiosa dei singoli viene ad assumere i contorni della "eguale liberta' di ciascuno di conformarsi al proprio ordinamento"17. Concentrando ora l'attenzione sulla realta' ebraica, che e' il tema che ci interessa qui piu' da vicino, possiamo facilmente osservare come l'assimilazione dell'ebraismo ad un ordinamento giuridico assuma un valore quasi paradigmatico di quanto siamo venuti sin qui asserendo sull'inquadrabilita' delle confessioni religiose nel vasto ambito degli ordinamenti giuridici originari18. Se non c'e' alcun dubbio, infatti, che l'ebraismo, considerato come fenomeno sociale, partecipi due volte della tutela approntata dalle norme costituzionali, venendo il popolo ebraico a porsi in Italia come una minoranza sia religiosa che etnico-linguistica19 - ed in tal senso ha sempre cercato, a prescindere dal luogo di insediamento, di conservare una propria specifica identita' ed autonomia -, abbiamo visto supra20 che la confessione israelitica si caratterizza principalmente proprio per il suo essere, nella sostanza, un complesso millenario di leggi e di norme religiose e civili indissolubilmente connesse, con regole di appartenenza e di condotta rivolte a soggetti ben determinati ed individuati, tanto che la straordinaria importanza attribuita a queste leggi e tradizioni, insieme all'alta considerazione che da sempre e' stata riservata all'apporto dottrinale e giurisprudenziale dei maestri ed interpreti delle norme, consuetudini e tradizioni ebraiche, hanno indotto parte della dottrina21 ad identificare l'ebraismo con lo stesso diritto ebraico. Cio' non deve stupire piu' di tanto, se si considera il fatto che la nascita stessa dell'ebraismo, sulle pendici del monte Sinai, ha comportato a suo tempo l'adozione di una Legge da parte di una collettivita', e la stipulazione di un contratto sociale costituente, al tempo stesso, un atto di sovranita': i tratti piu' strettamente culturali come la mistica, la letteratura e la filosofia ebraica verrebbero cosi' a configurarsi come strumenti finalizzati alla ricerca dei contenuti di quel contratto sociale e quindi, in ultima analisi, dello spirito di quell'ordinamento22. Indubbiamente, e' anche per questo motivo che la posizione dei "ministri di culto" ebraici, i rabbini, non trova paralleli nell'ambito di nessun'altra religione propriamente detta23: essi, infatti, non costituiscono affatto gli intermediari privilegiati tra la divinita' ed i fedeli, ma sono soprattutto gli esperti conoscitori, maestri ed interpreti di quelle norme, leggi e consuetudini plurimillenarie che costituiscono l'ebraismo; piuttosto che sacerdoti, essi sono quindi giudici - tant'e' che, fra le istituzioni tradizionali dell'ebraismo, si collocano i tribunali rabbinici, con una giurisprudenza che ha tuttora modo di evolvere, specialmente in quegli Stati dove ancora vige lo statuto personale -, e non occupano affatto una posizione in qualche modo sovraordinata rispetto alla collettivita' dei fedeli, di modo che se, per una qualsiasi ragione, nella comunita' venga a mancare il rabbino, il regolare svolgimento dei servizi religiosi potra' essere propriamente assicurato anche da un soggetto "laico"24. 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