3.3. La situazione italiana. Dati normativi ed opzioni valutative.

Nel porre il principio, consacrato nell'art. 8 della nostra Costituzione, della eguale liberta', il legislatore Costituente introdusse nell'ordinamento italiano il termine di "confessioni religiose" senza peraltro chiarirne la precisa portata, e realizzando cosi', con la disposizione de qua, una sorta di "disposizione normativa aperta"1, suscettibile per cio' stesso di essere adattata alle piu' diverse realta' sociali ed istituzionali. L'espressione in parola era completamente nuova ed assolutamente estranea al consueto lessico usato dal legislatore - e veniva preferita a quella di "altre Chiese", che pure era stata prospettata nel primo progetto di quello che sarebbe poi divenuto l'attuale art. 8 della nostra Carta fondamentale2 -, e segnava per la prima volta l'abbandono della locuzione di "culti", che fin dal periodo precedente all'unita' del Paese era stata utilizzata per definire le diverse Chiese, compresa quella cattolica3.

Evidentemente, non si riusci' a trovare una espressione migliore di questa4, presa di peso, tuttavia, dalla tradizione cristiana e, in particolare, connessa con la "divisione della cristianita' conseguente alla Riforma"5, anche se evidentemente adoperata, dalla formulazione costituzionale, "nella accezione traslata di "gruppo religioso""6: infatti, e' indubitabile che, con questa espressione, il Costituente volesse fare riferimento sia alla Chiesa cattolica che alle altre religioni, comprese quelle non cristiane, se e' vero che - come abbiamo visto nel capitolo precedente -, tra i "culti" gia' ammessi nello Stato, - e che non potevano, percio', non essere ricompresi tra le confessioni considerate dal Costituente -, figurava anche quello ebraico, che, tra l'altro, si era rivolto al legislatore presentando progetti e suggerimenti poco piu' di un mese prima della discussione sul testo del futuro art. 8.

Secondo l'opinione di una nota stuD-osa, negli anni seguenti all'emanazione della Costituzione, opportunamente il legislatore non si preoccupo' di riempire di contenuto quella locuzione, dal momento che la previsione di una formula che indicasse quali, tra le diverse formazioni sociali, avrebbero dovuto essere ricomprese nel concetto di "confessioni religiose", ex art. 8, avrebbe sostanzialmente svuotato di contenuto il riconoscimento della loro eguale liberta' di fronte alla legge, cosi' come contemplato nel primo comma dello stesso art.7.

Resta il fatto che cio' non ha impedito l'apertura di un acceso e travagliato dibattito tra gli stuD-osi, a proposito del metodo migliore per arrivare a circoscrivere e ad applicare nella realta' concreta il concetto, e che ha visto di volta in volta prevalere soluzioni antitetiche, a seconda dei criteri esegetici utilizzati dagli stuD-osi, ma senza portare, almeno fino a tempi recentissimi, ad intravedere una soluzione - che, peraltro, non e' considerata tale da tutta la dottrina -, in grado di contemperare i diversi - e talora confliggenti - valori, sottesi dalla problematica de qua8.

Indubbiamente, tenersi in equilibrio entro un campo pervaso da opposte tensioni e' un esercizio molto difficile, e spesso l'opzione di coscienza sottesa a queste problematiche e' rimasta oscurata dalla necessita' - che pur esiste, lo abbiamo gia' visto, cosi' nel nostro come negli altri ordinamenti -, di circoscrivere il numero dei soggetti legittimati ad un trattamento di favore9 e - in modo particolare per quanto riguarda l'ordinamento italiano -, ad addivenire alle intese con lo Stato (che, stando all'incontrovertibile dato costituzionale, si configurano come il presupposto indispensabile per l'accesso dei gruppi religiosi ad un tale trattamento).

Il dibattito - che ha coinvolto sia i costituzionalisti che gli ecclesiasticisti -, ha preso le mosse dall'analisi combinata degli artt. 8 e 19 della nostra Carta costituzionale, e, sulla base della conclusione secondo la quale la Costituzione ha voluto differenziare in modo reciso le confessioni da tutti gli altri raggruppamenti con finalita' religiosa, si e' incentrato soprattutto sull'enucleazione di un criterio distintivo, che fosse tale da permettere di distinguere nettamente cio' che e' una confessione religiosa, da cio' che rimane invece una semplice associazione10.

Partendo dall'affermazione che tra associazioni e confessioni corre un rapporto da genus ad species, gli stuD-osi hanno postulato quasi unanimemente che tra i due concetti esiste una sorta di gerarchia11, o meglio, che per assurgere alla dignita' di confessione, l'associazione religiosa deve essere in possesso di un quid pluris, salvo poi, nella realta' dei fatti, trovarsi in totale disaccordo in ordine all'identificazione di questo "quid", o al metodo da seguire per arrivare ad identificarlo.

Ad esempio, la dottrina piu' tradizionale - e piu' risalente - si e' giovata, in un primo tempo, dell'apporto di discipline estranee alla scienza giuridica, facendo affidamento soprattutto sugli strumenti fornitici dalla sociologia12, per giustificare l'assunto secondo il quale dal carattere aperto, e quindi di norma in bianco, dell'art. 8, discenderebbe per forza di cose il riferimento ad una nozione essenzialmente storicistica - non strettamente giuridica - del concetto in parola, e cioe' alla confessione cosi' come viene percepita (e recepita) dalla cosiddetta "coscienza comune"13.

Ma se una simile opinione avrebbe potuto, al limite, essere avallata nel primo periodo di attuazione della Costituzione, il processo di trasformazione e di evoluzione della societa' italiana, connesso al progressivo mutare dei valori ed al diffondersi, anche in Italia, di religioni provenienti da contesti culturali (e cultuali) profondamente altri rispetto al nostro, hanno presto finito col far cadere in rapida obsolescenza l'utilita' del richiamo al concetto sociale, tanto da rendere necessaria una ulteriore specificazione della definizione cosi' ricavata14.

Le aporie definitorie intrinseche al concetto sociale hanno portato quindi altra parte della dottrina a porre, alla base della definizione, un elemento piu' ampio, come quello costituito dalla "opinione pubblica formatasi nella societa' italiana"15, ma che, proprio a causa di tale sua ampiezza, si e' rivelato troppo generico per servire allo scopo e, quindi, anch'esso inutile, ma soprattutto controproducente, se e' vero che - come giustamente nota la dottrina piu' recente -, "il problema della tutela delle confessioni va affrontato, proprio ed innanzi tutto, con riferimento al momento genetico in cui esse, per difficolta' proprie od esterne, non abbiano ancora "sfondato", non si siano ancora accreditate nell'opinione pubblica"16 (anche a tacere del fatto che l'opinione pubblica e' spesso manipolata, o condizionata, dall'opinione dei gruppi dominanti nella societa', ed in specie, nel nostro caso, dalla confessione di maggioranza).

Le stesse obiezioni, sostanzialmente, possono essere mosse ai tentativi effettuati dai sostenitori della tesi che ha fatto riferimento, piuttosto che all'opinione pubblica, al consolidamento della confessione nella "tradizione italiana"17, utile soltanto a circoscrivere in piu' angusti termini quella dell'opinione pubblica, di modo che, ad esempio, "un gruppo di musulmani riunitosi in Italia per finalita' religiose non darebbe vita - nell'a'mbito del nostro ordinamento - ad una confessione ma solo ad una associazione in base all'art. 19"18, in cui e' in re ipsa quella "diffidenza verso una fenomenologia religiosa diversa da quella cattolica o cristiana, e comunque lontana dalla tradizione istituzionale delle chiese d'occidente"19, e che bene risponde ad una valutazione della societa' che si vorrebbe sempre uguale a se' stessa.

Inoltre - e l'obiezione ci pare risolutiva -, e' stato giustamente osservato che la formula dell'art. 8 parla semplicemente di "confessioni religiose" e non di "confessioni religiose tradizionali", e che quindi la Costituzione mostra di proteggere tutte le minoranze religiose in quanto tali, e non in quanto consolidatesi nella tradizione italiana, cosicche' intendere la formula dell'art. 8 nel secondo senso "importerebbe una restrizione del significato delle norme in esame fuor d'ogni previsione di esse"20.

Nulla autorizza a pensare, del resto, che, in mancanza di indicazioni legislative in tale senso, il tratto distintivo delle confessioni sia rappresentato dalla consistenza numerica, come invece ha fatto chi ha identificato, forse prendendo a prestito l'elaborazione giuridica tedesca (la quale, pero', e' fondata su precisi dati normativi), la realta' confessionale con una formazione sociale caratterizzata, oltre che dalla "serieta'" dei rapporti con gli appartenenti al consesso, soprattutto dall'elemento del "concorso stabile di un certo numero di aderenti"21.

In ultima analisi, non ci sembra accoglibile neppure quella tesi, pur prospettata da una parte autorevolissima della dottrina, che, proponendo l'interpretazione del termine "confessione" in stretta connessione con quella dell'aggettivo "religiosa", vorrebbe differenziare le confessioni dalle associazioni sulla base dell'assunto secondo cui solo le prime sarebbero caratterizzate da "una propria e originale concezione totale del mondo, che investe, oltre ai rapporti tra uomo e D-o, pure i rapporti tra uomo e uomo", basata essenzialmente "sull'esistenza di un Essere trascendente, in rapporto con gli uomini"22.

A questa impostazione, infatti, possono essere mosse due obiezioni di fondo. La prima e' che, cosi' posto il requisito dell'originalita' - o della novita' - di concezione del mondo, rimarrebbero esclusi dalla nostra considerazione non solo la maggior parte dei nuovi movimenti religiosi presenti al giorno d'oggi nel nostro Paese - in quanto e' sempre piu' difficile, al loro interno, riscontrare precisi caratteri di originalita' idonei a distinguerli nettamente l'uno dall'altro e dalle religioni consolidate23 -, ma anche quelle confessioni "tradizionali", di origine protestante - tutte derivate dal ceppo ebraico-cristiano -, tra le quali non e' dato riscontrare alcuna differenza originale, basandosi esse solamente su di una "diversita' di interpretazioni teologiche, e talvolta anche solo esegetiche, della stessa Scrittura, che hanno alimentato diversi modi culturali e tradizioni storiche di vivere la stessa fede"24 (e, sotto questo aspetto, neppure distinguibili dalla stessa Chiesa cattolica); oltretutto, anche in questo caso vale l'obiezione secondo cui il criterio dell'originalita' della professione di fede manca del tutto di una base normativa.

Il secondo appunto che possiamo fare alla tesi in esame e', in un certo senso, di piu' ampio respiro, e muove dalla considerazione del significato attribuito all'aggettivo "religiosa", che in questo caso verrebbe a presupporre "una univocita' del significato di "religione", che viceversa e' caratterizzata dalla polivalenza"25. In altre parole, la religione verrebbe qui ad essere definita - attraverso il riferimento ad un Essere trascendente26 -, grazie all'adesione alla impostazione teistica di cui si e' ampiamente parlato in precedenza, trattando della giurisprudenza statunitense e del suo iter evolutivo, evidenziandone d'altro canto la portata troppo riduttiva, poiche' l'opinione che ogni religione postuli necessariamente l'esistenza di una divinita' e' storicamente condizionata dalle religioni teiste di stampo occidentale - che non possono esse sole porsi a base di una definizione della religione e dei fenomeni ad essa connessi che possa aspirare ad avere un'utilita' euristica generale anche soltanto nei limiti del nostro ordinamento -, ed e', altrettanto storicamente, contraddetta dalla presenza costante, in altre parti del mondo, di religioni "a-teiste", come il piu' volte menzionato buddhismo o il confucianesimo, ma che non per questo vengono considerate come semplici movimenti filosofici.

La stessa critica puo' essere rivolta a quelle tesi che, partendo ancora una volta dal riferimento al concetto di confessione cosi' come percepito dalla coscienza sociale, hanno cercato di affinarlo unendolo al riscontro di tutta una serie di componenti esteriori, operazione che, se da una lato ha il pregio di essere agganciata ad elementi piu' oggettivi del puro e semplice riferimento alla coscienza sociale - in quanto la presenza di fattori esteriori e' piu' facilmente, ed oggettivamente, verificabile -, dall'altro lato e' suscettibile di portare a dei risultati e conclusioni inaccettabili, se per elementi esteriori vengono presi in considerazione - come, del resto, e' stato fatto -, principalmente le pratiche liturgiche e la presenza di ministri di culto27.

Con il che, il criterio sociologico verrebbe a specificarsi anch'esso come tentativo di definizione della religione in se' - piuttosto che della realta' confessionale anche al fine della distinzione dalle associazioni -, ed in particolare come approccio teistico - il culto presupponendo una divinita' a cui dedicare dette pratiche -, con il grave difetto di dare per dimostrato proprio l'id demonstrandum, che, cioe', una religione che non contempli riti dedicati ad una divinita' non sia da considerare religione in senso proprio, risolvendosi percio' ancora una volta - secondo noi - in una mera petizione di principio28.

In alternativa alle tesi prospettate, e' stato proposto, da autorevole parte della dottrina, di porre l'accento sui caratteri piu' eminentemente strutturali del gruppo religioso, attraverso il riferimento, soprattutto, all'aspetto istituzionale, normativo ed organizzativo della sedicente confessione: sarebbe allora agevole operare una distinzione tra "quelle comunita' religiose che nell'ordinamento statale si presentino esistenti e operanti quali pure e semplici associazioni con fini di culto, unite bensi' dalla comune fede ma senza ne' imporre doveri ne' pretendere diritti dai propri membri e prive, come tali, di ogni organizzazione statutaria propria piu' o meno istituzionale, in quanto da loro stesse giudicata contrastante con i propri princi'pi spirituali o comunque non opportuna", e le vere e proprie confessioni, che sarebbero da identificare con "quelle comunita' religiose sia nazionali, sia supernazionali o straniere che risultino dotate di una positiva organizzazione statutaria e di un assetto istituzionale con una propria normazione"29.

Altre volte, invece, l'aspetto istituzionale e' stato preso in considerazione unitamente a quello, funzionalistico, del fine perseguito dal gruppo stesso: cosi', ad esempio, e' stato sostenuto che "la confessione religiosa si differenzia per il carattere istituzionale e l'esistenza di una normazione e di un'organizzazione per il perseguimento di fini religiosi determinati"30, mentre altri, sottolineando esclusivamente l'aspetto funzionalistico, ha asserito che l'unico elemento discriminativo delle confessioni dalle altre formazioni sociali "non puo' essere che quello del fine specifico perseguito dal gruppo stesso, nel senso che si ha confessione la' dove lo scopo finale della collettivita' - a cui essa e' informata ed al cui conseguimento e' immutabilmente diretta - e' favorire il contatto tra l'individuo e potenze trascendenti"31.

Se le tesi che fanno appello al dato funzionalistico, o della peculiarita' del fine religioso - da solo o in varia combinazione con elementi strutturali -, non riescono a cogliere nel segno, dal momento che anche le associazioni hanno un proprio fine specifico - con il che andrebbe smarrita la distinzione di esse dalle confessioni, che le dette tesi si proporrebbero invece di fondare32 -, l'opzione interpretativa secondo la quale il gruppo, per assurgere alla dignita' di confessione religiosa, dovrebbe presentare necessariamente un'organizzazione ed una normazione propria, va oltre il dettato costituzionale: infatti, il secondo comma dell'art. 8, prevedendo la possibilita' (e non la necessita'), per le confessioni religiose, di organizzarsi secondo propri statuti, riconosce a formazioni sociali gia' esistenti - e, pertanto, gia' qualificabili come confessioni -, il diritto di darsi un'organizzazione, venendo con cio', seppure implicitamente, ad ammettere la possibilita' dell'esistenza di confessioni religiose non organizzate, ma, comunque, pur sempre qualificabili come confessioni33, e, d'altronde, al giorno d'oggi non e' difficile constatare come proprio "alcune confessioni di piu' recente formazione sono orientate a non darsi norme giuridiche cogenti e sistematiche, e a non seguire modelli gerarchici permanenti, ma tendono ad organizzare la propria esistenza ed attivita' secondo uno stile comunitario e con forti tratti di spontaneita'"34.

Note:

  1. La definizione e' di R. Botta, Manuale di diritto ecclesiastico. Valori religiosi e societa' civile, Torino, 1998, p. 70, che sottolinea il fatto che cosi' la disposizione sarebbe stata "applicabile non solo nei confronti delle confessioni (a quel tempo) venerate e conosciute ma anche nei confronti di quelle che in futuro avrebbero potuto sorgere e svilupparsi". Sostanzialmente, nello stesso senso, cfr. N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 38, secondo il quale "in presenza di trasformazioni sociali e culturali cosi' profonde da investire anche la dimensione "religiosa" della persona umana la proposizione di un modello di confessione storicamente determinato e datato all'eta' della Costituente si risolverebbe in un'opposizione pregiudiziale a tali processi, aderente ad una visione continuista con il vecchio ordinamento e incompatibile con il nuovo modello di tutela prefigurato dall'art. 2 della Costituzione".Torna
  2. Cfr. P. Sassi, Quid est vera religio? I giudici italiani e la Chiesa di Scientology, in Corr. giur., 1997/10, p. 1213. Cfr. anche G. Long, Le confessioni religiose "diverse dalla cattolica", cit., p. 66.Torna
  3. Cfr. A. Vitale, Corso di diritto ecclesiastico. Ordinamento giuridico e interessi religiosi, Milano, 1998, p. 120. Anche se, a causa della posizione da sempre ricoperta dalla Chiesa cattolica, nel sistema dello Statuto albertino ci si riferiva piu' facilmente ad essa come alla "religione dello Stato", e nelle disposizioni della legge delle guarentigie come alla "Chiesa" tout court, riservando cosi' il termine di "culti" alle minoranze religiose. Cfr. anche N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 32.Torna
  4. Cfr. P. Sassi, Quid est vera religio?, cit., p. 1214.Torna
  5. Cosi' A. Vitale, Corso di diritto ecclesiastico, cit., p. 120. In senso conforme a quanto specificato nel testo, cfr. anche N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., pp. 32 ss.Torna
  6. N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 34.Torna
  7. Cfr. A. Rava', Contributo allo stuD-o dei diritti individuali e collettivi di liberta' religiosa nella Costituzione italiana, Milano, 1959, pp. 106 s.Torna
  8. Cfr. P. Sassi, Quid est vera religio?, cit., p. 1214.Torna
  9. Cfr. S. Ferrari, La nozione giuridica di confessione religiosa, cit., p. 20, secondo il quale "entrambi i profili vanno tenuti presenti, ma senza inquinare con la preoccupazione pratica di evitare possibili abusi il lavoro teorico di qualificazione della nozione giuridica di confessione religiosa".Torna
  10. Cfr., per tutti, P. A. d'Avack, Trattato di diritto ecclesiastico italiano. Parte generale, Milano, 1978, p. 335: "le comunita' religiose non cattoliche vanno distinte (e su cio' tutti sono d'accordo) in due grandi categorie diverse, e cioe' nelle associazioni e nelle confessioni"; Id., Introduzione, in Aa. Vv., Le intese tra Stato e confessioni religiose, cit., p. 11. V. anche P. Gismondi, Lezioni di diritto ecclesiastico. Stato e confessioni religiose, Milano, 1975, p. 95, secondo il quale la contrapposizione tra associazioni e confessioni emerge all'evidenza "anche da una superficiale indagine degli art. 8 e 19 Cost.".Torna
  11. Contra, C. Mirabelli, L'appartenenza confessionale. Contributo allo stuD-o delle persone giuridiche nel diritto ecclesiastico italiano, Padova, 1975, pp. 140 s., secondo il quale le due tipologie di formazioni sociali "muovono su piani diversi e diverso e' l'interesse tutelato dalle disposizioni costituzionali che ad esse fanno riferimento, pur se comune e' il bene protetto". Cfr. anche G. Long, Le confessioni religiose "diverse dalla cattolica", cit., p. 66, che, se puo' essere d'accordo, in linea di massima, sulla distinzione tra confessioni ed associazioni, per lo meno a fini interpretativi, dichiara pero' che "non e' convincente la collocazione in scala gerarchica di questi due concetti, per cui l'associazione e' senza dubbio un minus rispetto alla confessione, e viceversa": Torna
  12. Cfr., al riguardo, A. C. Jemolo, Lezioni di diritto ecclesiastico, Milano, 1979, p. 95: "il concetto di confessione religiosa non e' in se' giuridico, ma e' piuttosto assunto dal diritto cogliendolo nel campo della sociologia".Torna
  13. Cosi' A. C. Jemolo, Le liberta' garantite dagli artt. 8, 19 e 21 della Costituzione, cit., p. 407: "non c'e' mai stato dubbio che il legislatore adopera questi termini, confessione religiosa, culto, chiese, assumendoli col significato che hanno nella coscienza comune, rifacendosi cioe', si potrebbe dire, alle relative entita' sociali". Nello stesso senso, cfr. T. Mauro, Considerazioni sulla posizione dei ministri dei culti acattolici nel diritto vigente, in Aa. Vv., Studi in onore di Vincenzo Del Giudice, Milano, 1953, II, pp. 111 s., che tuttavia continua dicendo che non sembra del tutto impossibile l'individuazione di un criterio piu' sicuro, e piu' concreto, di quello del riferimento alla coscienza sociale. Secondo C. Mirabelli, L'appartenenza confessionale, cit., p. 140, "trattandosi della disciplina giuridica di una manifestazione della vita sociale, storicamente mutevole, sembra legittimo il ricorso al comune sentire".Torna
  14. Cfr. N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 41.Torna
  15. D. Barillaro, Considerazioni preliminari sulle confessioni religiose diverse dalla cattolica, cit., pp. 120 s., che continua dicendo che "la realta' sociale che il legislatore cerca e' quella cui egli deve riferirsi e che deve regolare"Torna
  16. N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 43. Cfr. anche C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 188, secondo il quale accogliendo la tesi criticata nel testo, finirebbe sostanzialmente trascurata, ed emarginata, "la fase di formazione o di sviluppo, che ogni confessione religiosa attraversa prima di affermarsi con caratteri di stabilita' ed autosufficienza: dimodoche', prevedere una soglia, prima della quale non sono operanti le garanzie ordinamentali, implica la attenuazione arbitraria di diritti e prerogative che sono diretti a tutelare la dinamica religiosa e confessionale".Torna
  17. F. Bolognini, I rapporti tra Stato e confessioni religiose nell'art. 8 della Costituzione, Milano, 1981, p. 47,: cfr. ancora N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., pp. 42 s.Torna
  18. P. Gismondi, Lezioni di diritto ecclesiastico, cit., p. 98, il quale tuttavia considera, insieme al carattere tradizionale, anche determinati requisiti istituzionali. Contra, C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1976, II, p. 1178, per il quale questa tesi circoscriverebbe "eccessivamente ed in modo inaccettabile il concetto".Torna
  19. C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico , cit., p. 188.Torna
  20. Cosi' F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., p. 74. Cfr. anche C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 189.Torna
  21. Cosi' C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, cit., p. 1178, che ritiene che "quindi, contrariamente a quanto sostiene il Gismondi, nulla sarebbe da opporre al riconoscimento della qualifica [di confessione] [...] di gruppi di mussulmani, se essi riuscissero a radicarsi stabilmente ed a raccogliere intorno a loro schiere non troppo esigue di fedeli. Nello stesso senso, A. C. Jemolo, Lezioni di diritto ecclesiastico, cit., p. 104, che afferma che "possono aversi nuove confessioni o penetrare in Italia confessioni che fin qui esistevano in altri Stati. Peraltro riteniamo che debba esigersi perche' possa parlarsi di una confessione religiosa di un minimo di durata, ed anche un minimo, sia pur ristretto, di appartenenti; non ogni bizzarria che duri l'espace d'un matin, non ogni gruppo di una dozzina di persone, pure dandosi regole scritte, sara' a considerarsi una confessione". Contra, F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., pp. 72 s., che auspica che gli interpreti facciano leva su altri, e piu' pregnanti, criteri. Cfr. anche R. Botta, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 71.Torna
  22. Cosi' F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., pp. 74 s. della stessa opinione e' G. Dalla Torre, Il fattore religioso nella Costituzione, cit., p. 67. Cfr. anche G. Long, Le confessioni religiose "diverse dalla cattolica", cit., p. 67, che parla di "unicita' di credo", rispecchiata da una "originale visione del mondo".Torna
  23. Un'interessante impostazione della questione e' rinvenibile in G. Filoramo, I nuovi movimenti religiosi. Metamorfosi del sacro, Roma Bari, 1986, p. 14, secondo il quale, nella soluzione di questo complesso problema in cui entrano in gioco molteplici varianti, si possono dare almeno quattro possibilita', che, per usare una metafora, sarebbero le seguenti: "puo' darsi il caso di un vino vecchio in un otre nuovo (novita' dello stile di vita, di tipo formale o sociologico); di un vino nuovo in un otre vecchio (novita' di tipo dottrinale, che puo' presentarsi in forme sociologiche tradizionali); di vino nuovo in otre nuovo (e' il caso, raro, di vere e proprie religioni); o, infine, di vino vecchio in otre vecchio (risposte di tipo neotradizionalista)". Secondo N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 49, seguendo questa classificazione l'originalita' potrebbe essere riconosciuta, oltre che ai movimenti del terzo gruppo, al piu' a quelli del secondo, che comunque non sarebbero originali stricto sensu, dato che fondono insieme vari elementi di teologie preesistenti.Torna
  24. N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 48. Come abbiamo osservato nel precedente paragrafo, talvolta la giurisprudenza tedesca ha fatto ricorso proprio a questo criterio, dell'originalita' della fede professata, per giustificare il diniego di concessione del riconoscimento pubblicistico: cfr. C. Mirabelli, Chiese e confessioni religiose nell'ordinamento costituzionale della Repubblica federale tedesca, cit., p. 517.Torna
  25. N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 53, che prosegue dicendo che "il fatto religioso e' diverso non meno che universale e rende difficile, se non impossibile, l'individuazione dell'elemento comune alle diverse forme religiose, che consenta di definirle come tali".Torna
  26. Cfr. C. Magni, Avviamento allo stuD-o analitico del diritto ecclesiastico, Milano, 1956, specialmente p. 77.Torna
  27. Per l'importanza dell'elemento liturgico nella qualificazione di una confessione propende decisamente A. C. Jemolo, Lezioni di diritto ecclesiastico, cit., pp. 104 s. Cfr. anche, in senso sostanzialmente conforme, T. Mauro, Considerazioni sulla posizione dei ministri dei culti acattolici nel diritto vigente, cit., p. 112, che precisa come "a caratterizzare un "culto", o meglio una confessione religiosa, occorre il concorso di due elementi (princi'pi e riti): il che significa, in ultima analisi, che, ove non voglia tenersi conto della natura speciale che presentano i princi'pi essenzialmente religiosi, diretti cioe' a regolare i rapporti tra l'uomo e D-o, il fattore decisivo per identificare una confessione religiosa consista precisamente nell'esistenza di un complesso di riti e quindi di un culto in senso stretto, onde l'uso di tale termine per indicare qualunque confessione religiosa sarebbe da ritenere quasi sintomatico". Cfr. F. Finocchiaro, Art. 8, cit., p. 389, che definisce la religione come "quel complesso di dottrine costruito intorno al presupposto dell'esistenza di un Essere trascendente, che sia in rapporto con gli uomini, al quale e' dovuto rispetto, obbedienza ed anche, secondo alcune di tali dottrine, amore. La comunita', che faccia propria una fede trascendente, la esterna attraverso riti ed atti di culto, diretti a manifestare l'ossequio (adorazione, venerazione, ecc.) verso l'eccellenza di quest'Essere supremo, al quale la comunita' si sente legata e al quale, attraverso tali riti, chiede un atteggiamento benevolo".Torna
  28. Conforme sul punto, N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 45, secondo il quale "il problema della nozione delle confessioni religiose si pone non per le religioni tradizionali, ormai comunemente considerate come tali, ma per quelle non tradizionali".Torna
  29. P. A. d'Avack, Trattato di diritto ecclesiastico italiano, cit., p. 335. Cfr. anche L Spinelli, Diritto ecclesiastico, cit., p. 226. Contra, S. Lariccia, Diritto ecclesiastico, cit., specialmente a p. 106.Torna
  30. Cosi' P. Gismondi, L'interesse religioso nella Costituzione, in Giur. cost., 1958, p. 1229. Cfr. anche C. Esposito, Liberta' e potesta' delle confessioni religiose, in Giur. cost., 1958, p. 900, che parla di confessione religiosa "quando esiste una realta' sociale istituzionalmente destinata alla realizzazione del fine religioso", e D. Barillaro, Considerazioni preliminari sulle confessioni religiose diverse dalla cattolica, cit., pp. 89 ss. Contro questa tesi si e' schierato, ancora una volta, C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, cit., p. 1178, che la definisce senz'altro troppo generica e quindi inutile.Torna
  31. A. Rava', Contributo allo stuD-o dei diritti individuali e collettivi di liberta' religiosa nella Costituzione italiana, cit., p. 108.Torna
  32. Cfr. F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., p. 74.Torna
  33. Cfr. F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., p. 73. Nello stesso senso, anche T. Mauro, Considerazioni sulla posizione dei ministri di culto acattolici nel diritto vigente, cit., pp. 112 s., secondo il quale "a chiunque guardi attentamente questo vasto mondo, apparira' incontestabile come, accanto a confessioni religiose dotate di una perfetta e complessa organizzazione giuridica, si fondi essa su norme scritte o semplicemente consuetudinarie, ve ne siano invece delle altre, dove questa struttura organizzativa giuridica si presenta in forma assai rudimentale e in proporzioni quanto mai ridotte ovvero sembra addirittura del tutto inesistente, limitandosi, in quest'ultimo caso, i rapporti tra i singoli membri a vincoli di natura puramente religiosa o morale". Contra, L. Spinelli, Diritto ecclesiastico, cit., pp. 226 s.Torna
  34. Cosi' C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 189. In senso conforme, cfr. anche R. Botta, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 71.Torna

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