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ago 21, 2002 |
Feste e ricorrenze,  |
redazione

Shavuoth, festa delle primizie

Shavuoth e' la festa dell'idea, della rivelazione, ed e' anche la festa delle prime frutta della terra: di cio' che D-o ha dato per la vita dello spirito e di quello che ha dato per la vita del corpo. Sono i due significati della festa, quello agricolo-naturale e quello nazionale-spirituale-umano, che dovrebbero innalzarla al piu' grande onore e rispetto d'Israele e degli uomini. Non c'e' in questa, come in tutte le altre solennita' ebraiche, nulla che le impedisca di essere universale e di parlare agli uomini in un linguaggio comprensibile per tutti: in quello che dev'essere, sotto tutti i climi ed i tempi, il linguaggio della rivelazione.

Tutti gli uomini vivono della terra e godono quando essa si ridesta e produce per offrir loro il pane, di cui tutti abbiamo bisogno; il pane che l'oggetto essenziale delle nostre fatiche, delle nostre lotte e sofferenze. Shavuoth santifica questo pane e questa fecondita' meravigliosa della terra, con un atto di gratitudine a D-o, con un atto di pieta' verso gli uomini senza pane, senza terra, lontani dal possesso e dalla patria.

E' espressione festiva e solenne in cui si concreta quell'idea centrale della perfetta societa' ebraica ed umana per cui la proprieta' delle cose che esistono nel mondo e' di D-o il quale provvisoriamente ce la concede e del quale, sulla terra che e' sua, noi siamo gli affittuari, gli avventizi, i forestieri; per cui dobbiamo da una parte render grazie a lui e offrirgli, come al vero padrone e signore, le primizie del lavoro, le primizie del suolo ch'egli ha voluto affidarci, e dall'altra parte dobbiamo ammettere al godimento dei prodotti della terra quegli altri, forestieri come noi, ma che non hanno una zolla da cui trarre il pane, n un lembo di terra familiare su cui vivere.

L'agricoltore ebreo, e l'antica societa' ebraica era tutta agricola, e' invitato dalla Torah (Lev. 23: 15-22) a portare nel giorno della festa delle primizie, dalla sua sede al centro della sua idea e della sua vita, le nuove frutta e ad abbandonare al povero e al forestiero un angolo del suo campo, una parte della sua messe. L'uno e l'altro sono un sacrifizio, cioe' sono un'offerta all'idea. Gioirai dinanzi al signore D-o tuo, tu, tuo figlio, tua figlia, il tuo servo, la tua serva, il levita che e' nelle tue porte, il forestiero, l'orfano, la vedova che son fra te (Deut.16: 11).

Non l'egoistica letizia di cui gode, chiuso nella sua casa, nella sua citt, fra i suoi piu' vicini, il frutto della benedizione di D-o, i doni della grazia di D-o, ma la letizia, che si effonde su tutti, che abbraccia il lontano e il vicino, quelli che hanno e quelli che non hanno, come se tutte le distinzioni scomparissero e l'umanita' si unificasse sotto le ali della divina benevolenza, nella gioia e nella gratitudine. I nostri antichi maestri hanno interpretato con un sentimentalismo romantico, che noi abbiamo spesso il torto di non apprezzare e di non approfondire, questo che e' l'augurio e l'imperativo della festa di Shavuoth: gioirai dinanzi al signore D-o tuo, questo che e' il carattere e la definizione della letizia ebraica, della festa d'Israele.

La piu' piccola famiglia coi figli e coi servi, che e' la cosa nostra, il nucleo centrale della nostra vita quotidiana, piu' vicino a noi per ragioni di sentimento, di affetto, d'interessi, di lavoro, e la famiglia umana, sociale, nazionale, piu' grande, che e' la cosa di D-o, perch e' formata di esseri umili, senza possesso, senza beni, senza gioie, viventi in povert, in rinunzia, in dolore - il levita, il forestiero, l'orfano, la vedova - tutte e due le famiglie debbono gioire, se la festa ha da essere vera, degna, completa.

Questi quattro che son miei: il levita, il forestiero, l'orfano, la vedova; son messi accanto ai quattro che son tuoi: tuo figlio, tua figlia, il tuo servo, la tua serva; se tu dai un po' di gioia a cotesti che son miei, io rendero' lieti i tuoi. una di quelle meravigliose, delicate interpretazioni, anzi direi penetrazioni, di cui son cos ricchi i rabbini quando esercitano la loro geniale sensibilita' ebraica sulla parola della bibbia.

Altri popoli, tutti i popoli, celebrarono un giorno piu' che non facciano oggi, queste che son le stagioni dell'anno, le tappe solenni e liete della fecondita' rurale; ma il loro fu un senso pagano della natura, una materialistica, incomposta, bestiale esplosione di godimento; non una ragione di solidarieta' umana, di elevamento e di purificazione dello spirito, non una festa del dovere morale, non una lezione di bont, un'immersione nell'uno, attraverso gli uomini e l'universo.

Il senso della grandezza, dell'armonia, della ricchezza del creato si trasforma o si placa o si esprime presso gli ebrei non soltanto nella poesia e nella musica, ma anche in un bisogno di ricongiungimenti e di armonie umane e sovrumane, in una diffusione e in un dono di se stessi e delle proprie cose.

Questo senso che il pentateuco educo' negli ebrei, che i profeti approfondirono, che i rabbini se si puo' dir cos - affinarono con un poetico sentimentalismo, non e' piu' vivo in noi come dovrebb'essere; queste feste, che nell'esilio lungo e amaro hanno perduta qualcuna delle loro note e si sono quasi raccolte, lungi dai campi, nelle chiuse case degli uomini, erano invece fatte per rendere piu' intenso in noi questo dovere morale, sociale ed etico, questo senso dell'umanita' e del creato.

Se noi ne sentissimo il significato, esse dovrebbero pure ridestare in noi quel desiderio della vita nei campi che il ghetto e il mancato contatto con la terra hanno represso e addormentato. Si dice sempre, tutti i giorni, che gli ebrei hanno una tendenza ereditaria al commercio, che sono una gente per natura e per istoria dedita al traffico.

Si dimenticano non solo le ragioni restrittive che li hanno ridotti a questa loro funzione sociale, ma anche la opposta tendenza del loro pensiero e della loro vita, e i segni rimasti eternamente nella loro idea, d'un amore e d'una esaltazione non comune per la vita e per la fatica dei campi, e la nostalgia che nell'esilio hanno alimentato e conservato nel cuore dell'ebreo le tre feste agricole dell'anno. Questa nostalgia, che oggi si e' attivamente ridestata nelle folle ebraiche, rinnova e vivifica il contenuto di questa e delle altre due solennita' che i secoli del ghetto avevano mutilato o diminuito: e queste feste, che la nostra rinascita ha contribuito a farci meglio comprendere, sono a loro volta fattore importante di ispirazione e di rinnovamento della nostra esistenza collettiva, della nostra vita individuale, della nostra concezione del mondo e della societ.

Shavuoth celebra un'altra primizia: quella della Torah, che e' la creazione morale. Non di solo pane vive l'uomo, ma di tutto cio' che espressione della parola di D-o (Deut. 8: 3). un altro deposito, oltre quello della terra, che il signore ha dato non solo ad Israele, ma a tutti gli uomini; patrimonio morale e spirituale affidato prima agli ebrei perch lo conservassero, lo attuassero, lo diffondessero.

Sono le dieci parole scese nel deserto, dall'alto; quintessenza dell'idea e della morale a cui - per quanto con grande fatica - gli uomini devono avvicinarsi per riconoscerne la incancellabile verit. Dinanzi al decadere e al trasformarsi delle leggi, degli indirizzi culturali, delle concezioni morali, dei principi filosofici, le dieci parole rimangono immutate e irraggiungibili nella loro granitica perfezione.

Non sono lo statuto d'un popolo: sono la legge costituzionale dell'umanit; e Shavuoth e' la festa che nei millenni celebra le tavole della morale universale. Nessun'altra legge verra' a sostituire quelle dieci parole, che sono il seme e l'albero di ogni dovere, poich tutti i rapporti fra gli uomini vi troveranno sempre il loro criterio e la loro norma. Non dite che un altro Mose' verra' a portarvi un'altra Torah dal cielo; poich lo vi dico: essa non e' nel cielo. - Nessuna parte n'e' rimasta nel cielo.

Questa, che e' certo un'eco di drammatiche lotte e polemiche, d'un duello ideologico non ancora terminato, che si perpetua da due millenni, segna la via d'Israele. Si tratta non solo di celebrare ogni anno la festa della rivelazione, il Mattan Torah, la promulgazione dell'insegnamento, come l'anniversario di un fatto storico o d'una tradizione antica, ma di riconsacrarne colla conoscenza e colla fedelta' il contenuto e lo spirito, di mostrare effettivamente agli uomini che di fronte alle trasformazioni, ai cataclismi ideali che le societa' subiscono via via nei secoli, c'e' un popolo intelligente e saggio (Deut. 4: 6) che vive nella pace e nell'integrita' della sua concezione divina. Ma questa dottrina di vita dev'essere conosciuta.

La generazione passata, quella dell'emancipazione, creo', come simbolo del suo periodo confessionale, i grandi templi. Noi abbiamo creato le societa' di cultura, i convegni di studio, gli istituti che dovrebbero essere il segno della nostra volonta' di conoscenza, il simbolo di questo momento di rinascita dei valori storici e ideali d'Israele.

una buona strada o almeno e' il simbolo di un desiderio di riavvicinamento alle fonti della dottrina ebraica. Ma ora e' necessario tornare veramente alle fonti. Noi dobbiamo immaginarci di essere anche noi la generazione del deserto, il popolo raccolto alle falde del Sinai per udire dalla voce del maestro, Mose', la parola dell'eterno. Ma bada e abbiti sommo riguardo di non dimenticare le cose che i tuoi occhi videro e di far che non si allontanino dal tuo cuore in nessun momento della tua vita: falle conoscere ai tuoi figli e ai figli dei tuoi figli (Deut. 4: 9). Non bastano le escursioni immature e approssimative sulla superficie della storia, della vita, dell'idea ebraica; o le discussioni, le conferenze, gli scambi di idee e d'opinioni improvvisati.

Bisogna affrontare la montagna, per conquistarla a poco a poco, con quella dolce fatica dell'alpinista che vuoi raggiunger la cima e godere dall'alto l'ampia distesa del cielo e della terra; bisogna voler penetrare fino alle radici dell'albero. L'ebraismo ha posto sotto gli occhi del popolo il libro perch lo studiasse giorno e notte (Gio. 1: 8; sal. 1: 2); fino dai pi remoti tempi esso e' stato letto nelle pubbliche assemblee, agli ebrei e a quegli altri che la sinagoga attrasse sotto le ali della divinit. Perch, quanto a Mose', egli ha da tempo immemorabile chi lo predica in ogni citt, giacch e' letto tutti i sabati nelle sinagoghe, dicono gli atti degli apostoli (15:21).

Dinanzi a questo miracoloso fenomeno dell'effondersi della parola del Sinai sulle genti piu' varie, dinanzi a questa capacita' della rivelazione di parlare a tutti i popoli della terra, di conquistare gli uomini da un polo all'altro, come si puo' giustificare l'indifferenza, la negligenza, l'ignoranza che i nostri ebrei dimostrano verso la lingua e il contenuto della Torah? quando il signore benedetto si rivelo' per dare la Torah ad Israele, dissero i maestri della tradizione, non si rivelo' in una lingua sola, ma in quattro lingue: in ebraico, in latino, in arabo, in siriaco ; oppure, la voce di D-o si convertiva in sette voci e da queste in settanta lingue, perch tutti i popoli capissero. Cioe' la Torah e' destinata a diventare il patrimonio ideale, spirituale dell'umanit, come la storia dimostra.

Ma chi deve capirla ed attuarla prima di tutti e' Israele, che ne possiede la lingua, la tradizione, lo spirito, l'esperienza, il martirio, la difesa; che ne e' il depositano e ne dev'essere il maestro. Non s'insegna pero' agli altri, senza averne prima conoscenza intera, profonda, diretta, noi. e Tu, che ti chiami giudeo, che ti riposi sulla legge, che ti glori del tuo D-o, che conosci la sua volonta' e sai discernere la differenza delle cose, istruito come tu sei dalla legge, tu che ti credi d'esser la guida dei ciechi, la luce di quelli che son nelle tenebre, l'educatore degli ignoranti, il maestro dei fanciulli, perch hai nella legge la formula della conoscenza e della verit, come mai dunque, tu che insegni agli altri, non insegni a te stesso? (Epstola ai romani,2:17-21).

Il rimprovero - per quanto venga da lontano e da tempi di grandi lotte e travagli e di polemiche sovvertitrici - ha un suono attuale e pare rivolto alle moderne generazioni di ebrei che, pur avendo la coscienza del loro patrimonio e l'orgoglio della loro tradizione, non sanno fare lo sforzo di adeguarsi al loro dovere, di imparare veramente quello che vogliono insegnare agli altri; di essere prima discepoli e poi maestri; di compiere, per quella che e' la formula della conoscenza e della verit, lo stesso sacrifizio di tempo, di fatica, di amore, di volont, che compiono per tante altre cose dilettevoli o utili, vane o importanti, e per tante altre dottrine umane e passeggere. Solo per questo studio le vie dovrebbero esser facili e seminate di fiori?

Mose' si ritiro' per quaranta giorni nella solitudine fosca del monte, lungi dal mondo e dagli uomini, nella rinunzia assoluta ai desideri e ai bisogni del corpo, per conoscere la verit. Io stetti sul monte quaranta giorni e quaranta notti; pane non mangiai, acqua non bevvi... e al termine di quaranta giorni e di quaranta notti, l'eterno mi dette le due tavole di pietra, le tavole dell'alleanza (Deut.9: 9-11). Non facile essere ebreo, anzi e' duro: n la stagione che si dedica alla Torah e' un passatempo primaverile o estivo, presso alle montagne o al mare, in dilettevole compagnia; e' un sacrifizio, una rinunzia, una ascesa ardua e lunga, come quella di Mose', come quella di tutte le generazioni ebraiche che si macerarono per lei. Ma non e' neppure una fatica sovrumana.

Il Sinai non e' inaccessibile; per quanto avvolto nelle nubi e nel fuoco, ed echeggiante di tuoni, non e' la montagna misteriosa delle mitologie. La Torah e' gia' scesa dall'alto, nelle terre abitate dagli uomini. Basta che noi le facciamo una sede, un asilo, una casa in mezzo ai luoghi del nostro lavoro, dei nostri divertimenti, dei nostri studi, per ritrovarla; basta che noi la cerchiamo, interrogando noi stessi e le nostre virtu' e capacita' per conquistarla. Poich essa non e' inaccessibile n lontana; non e' nel cielo perch tu debba dire: chi salira' per noi in cielo per prendercela, e ce la ridir, in modo che possiamo adempierla? n e' di la' dai mari, perch tu debba dire: chi valichera' per noi l'oceano per prendercela e ce la ridira' in modo che la possiamo eseguire? ma e' una cosa vicinissima a te: e' nella tua bocca e nel tuo cuore, perch tu possa adempierla (Deut. 30: 11-13).

Come la terra che D-o ha concesso agli uomini perch ne traggano il pane, anche la rivelazione vuol essere coltivata perch ci dia i suoi frutti; anche essa e' un suolo fecondo che non ha bisogno di rugiada n di pioggia, ma solo dell'amore e della cura dell'uomo, di quell'esercizio dilettevole dello spirito che vi ricerca il suo alimento. Israele ha per tanti secoli celebrato, con questa festa, la sua gratitudine a D-o per le primizie della terra e per le primizie dell'idea: gli uomini sono riusciti a tenerlo lontano dai campi, ma non son riusciti a strappar dalle sue mani e dal suo cuore la legge.

Oggi egli ritorna faticosamente al lavoro della terra. Chi e' ancora lontano ritorni a coltivare, con altrettanta passione, i solchi della sua civilta' e del suo pensiero, per offrirne a D-o e agli uomini le primizie raccolte insieme coi fratelli sparsi sotto il cielo e col resto dell'umanit che ha cominciato a ritrovare nella legge la norma della vita. Come il contadino lavora ogni giorno, d'estate e d'inverno, il suo campo, cos Israele deve coltivare ogni giorno, sotto qualunque clima, la sua Torah che il suo campo.

Se non fosse cos, potrebbe ancora il popolo ebraico celebrare, con serieta' e sincerit, questa festa della rivelazione e dichiarare dinanzi al mondo di essere il depositario della parola di D-o? la gloria e' grande, il merito e' grande. necessario meritarseli. Riprendiamo il libro e riapriamolo, come se fosse sceso oggi dal cielo, e non fossero passati, tempo quasi incommensurabile, piu' di tremila anni dal giorno del Sinai.

Israele e' vecchio, ma e' tanto giovane ancora e deve aver fiducia nella sua idea. Il suo studio, la sua lotta, la sua fatica debbono durare fino a quel giorno in cui gli uomini avranno un solo diritto e una sola tor: quella del Sinai coi suoi dieci comandamenti e col suo unico D-o.