I principi fondamentali della realta' II,1
"Lo scopo della Creazione"
La gente spesso si chiede perche' D-o abbia creato un universo in cui la gente soffre.
Il presupposto e' che la vita dovrebbe essere bella. Ma da dove viene questo presupposto? Dopotutto, e' abbastanza facile presumere invece che la vita dovrebbe essere brutta. Perche' presumiamo il contrario? Sembra che sia perche' il cuore umano consosce fin troppo bene che D-o e' buono e si stupisce quando le cose sembrano contraddirlo.
Ramchal (cosi' come il santo Ari, il Gaon di Vilna, ed altri) e' d'accordo con la nostra presunzione che D-o sia di fatto buono, ed aggiunge che Egli ha creato il mondo per "far del bene agli altri".
La gente soffre? Certamente! Ma questo non nega che D-o sia in fondo buono, dacche' la sua fondamentale bonta' si estende a cose ben aldila' della nostra concreta esperienza, come vedremo.
La logica dietro l'affermazione che D-o ha creato il mondo per fare del bene e' come segue:
Noi sappiamo che D-o stesso e' buono; dopotutto, Egli da' alturisticamente (in fondo, che Gli costa?) e non chiede nulla in cambio (a che Gli servirebbe?); e' assiomatico che un ente buono faccia cose buone; e noi sappiamo che gli atti di bonta' debbono avere i loro destinatari ("oggetti di benevolenza", se vogliamo). Ne consegue che D-o, che e' buono, ha creato l'universo per "fare del bene", cioe' ha creato un'atmosfera in cui gli esseri potessero esistere per ricevere il Suo bene.
Ramchal continua sostenendo che, dacche' D-o e' integralmente completo, Egli dovrebbe logicamente offrirci soltanto una bonta' integrale. E che cos'e' il "bene integrale" che D-o potrebbe fornirci? L'esperienza di Se'. Percio' noi godiamo della divina bonta' nel modo piu' completo ed evidente quando esperiamo Lui.
Una tale piena e completa esperienza di D-o stesso e' chiamata "devequt" (aggrapparsi a D-o) in Ebraico, ed e' un tema costante della Qabbalah, del Mussar e della letteratura chassidica.
Forse la piu' efficace illustrazione della devequt e' quella che si trova in un certo punto del Talmud, in cui l'esperienza e' paragonata a quella di due datteri appiccicosi uniti l'uno all'altro. Il Talmud sembra voler qui sostenere che la "devequt" e' un esempio di due enti separati che "aderiscono" per un certo periodo e che per quel periodo diventano una ed una sola cosa a tutti gli effetti e scopi pratici (dacche' e' dura determinare dove inzia un dattero e l'altro termina), mentre in verita' restano due enti separati.
In verita', Ramchal parla altrove di cio' che si potrebbe chiamare come "l'ultimo stadio della devequt", nella "Fine dei Giorni". Ma non e' questo il punto. Il problema qui e' che noi possiamo di fatto aderire a D-o in modo variabile *in questo mondo*. E che mentre l'abilita' in questo varia da persona a persona, ogni atto di devequt ci porta sempre piu' vicini a Lui e ci consente di godere della Sua vera bonta' (cioe' Lui stesso).
Il punto sottostante qui sembra quindi che, mentre noi davvero soffriamo e la vita ci sembra talvolta brutta, noi possiamo comunque gradatamente immergerci nella vera bonta' divina a livello spirituale e trascendente aderendo a Lui (e cosi' trascendendo il dolore e la sofferenza materiali) come meglio possiamo.
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