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ago 23, 2002 |
Rabbanim Luzzatto,  |
redazione

Nuovi ebrei ed Eretz Israel post sionista

Una precisazione, poi vado subito all'argomento, che il tema non lo scelto io, ma lo accettato perche' mi pareva di avere qualcosa da dire di cattivo che forse e' necessario dire. Poi ci si parla tutti molto chiaramente, molto giusto, molto bello, e quindi tutte le cattiveria, le provocazione devono venire fuori subito.

Io comincerei subito a eliminare una parte dell'interrogativo, la parte che riguarda, il nuovo, la parola nuovo. Trascuro completamente la parola post-sionista perche' messo molto in discussione. Non so se si puo' parlare di post-sionismo in quanto lo stato d'Israele esiste gia' e quindi non c'e' piu' rapporto con la metina ha derech che c'era prima con lo stato in fiere, lasciamo stare. Non e' questo il nostro tema.

Invece, il punto interrogativo reale ' sul nuovo. E voglio spiegarmi bene, Se qualcuno di voi va a guardare i documenti relativi alla comunita' di Roma nei primi mesi dopo la liberazione, trova un episodio che e' ben riferito in una polemica accesa che c'e' stato in quel tempo sul settimanale Israel. Partecipe della polemica Giorgio Piperno z l e che tratta del fatto che un gruppo di soldati israeliani accolti come liberatori, addirittura venerati per il Magen David che avevano sulle spalline.

Accolti come portatori come un miracolo vero e proprio. Mettiamoci anche nei panni di chi usciva dal un periodo inaugurato col 16 ottobre, che avevano dato tanto per rifare scuola ebraica, per aiutare anche la comunita' di Roma, ecc. Vengono davanti a Bet Haknesset di sabato, tutti contenti di parlare con gli ebrei di Roma e per prima cosa si accendono le sigarette. E questo e' stato un primo, grosso choc di coloro che vedevano un messaggio arrivare dalla nuova societa' israeliana, quella che era vista come la premessa di riscatto, della gheula, che si comportavano in una maniera che, almeno pubblicamente, almeno davanti al Bet Haknesset, gli assimilatissimi ebrei italiani non avrebbero fatto. Almeno non in quella maniera, e di piu' si sentivano quasi derisi e quasi stimolati di dire, cambiate abitudine, guardate che le cose non sono come erano una volta, che noi ci comportiamo cosi'.

Ora, io voglio dire che il primo problema, la prima polemica che non poteva essere risolta con la scelta... E stiamo attenti qua, e dico una cattiveria, perche' e' una cattiveria non perche' lo intendo come tale ma perche' puo' essere sentito come tale. Non poteva essere risolto con una scelta di Aliya all'interno di gruppi da'atim in Erez Israel, non era quello il problema. Perche' anche se tutti coloro che ribellavano, che si opponevano a questo modo di presentarsi avessero voluto fare Aliya in un kibbutz da'ati, non avrebbero risolto il problema. Il problema restava e doveva essere affrontato in qualche maniera perche' poneva allora come pone successivamente, una serie di problemi.

Io vorrei invitarvi a questo proposito, senza dare una risposta, invitarvi a affrontare lungo due linea che si stanno affrontando da sempre in Erez Israel. Il primo e' Medinat Israel adesso e si stanno affrontando da sempre come lettura dell'obbiettivo sionistico. Le due linee chiamerei - e poi vi dico da chi sono rappresentate - quella di andare in Erez Israel a fare gli ebrei o quella di andare in Erez Israel a fare la normalizzazione. La linea della normalizzazione era sempre chiamata tale. Era definita anche da alcuni olim italiani, noi vogliamo andare a fare gli ebrei in Erez Israel esattamente nello stesso modo come i francesi fanno francesi in Francia, gli inglesi in Inghilterra e avanti di questo passo. Era qualcuno dei maestri del sionismo italiano, i realizzatori del sionismo italiano che diceva addirittura che la normalizzazione dev'essere portato fino a questo punto: dateci i nostri ladri, dateci i nostri truffatori, dateci le nostre prostitute. Vogliamo essere non piu' e non meno degli altri popoli.

Questa linea, anche se non espressa in questi termini veramente, ammetto, provocatori, pero' non inventati da me. In questo momento, questa linea e' quella che si riconosce in tutta una generazione di pensatori e scrittori israeliani moderni con i quali dobbiamo confrontarci. Dobbiamo cioe' dare una nostra risposta in qualche maniera. Direi che quella che la rappresenta di piu', che e' piu' a disposizione ai lettori anche in italiano e' Avrama Ben Yoshua. Direi che questo e' modello. Poi ci sono molti altri che teorizzano molto di piu' ma direi che questo e' un'indicazione a seguire.

Di contro, io ci terrei a sottolineare una voce isolata, molto isolata forse; di Leibowitz z l il quale, accuratamente, fino all'ultimo giorno della sua vita, e magari si trovasse qualcuno, io collaborerei allo spasimo, che fosse pronto a tradurre in italiano anche i suoi dialoghi con una cosa eccezionalmente interessante per il nostro tema, il quale esprimeva la sua preoccupazione addirittura sull'avvenire del popolo ebraico perche', dice, non son per niente sicura che il popolo ebraico abbia un avvenire. Forse lui lo era, ma lo diceva proprio con questo modo di fare per provocare e costringere una persona alla risposta. Ci sono diecine di cose sulle quali io non sono d'accordo con Leibowitz, ma devo dire che ero un maestro perche' ti costringeva a misurarti su quel terreno e ti costringeva a dare una risposta. Non ti permetteva di esimerti dalla risposta.

E, secondo punto, la sua estrema preoccupazione che quello che sta succedendo nella societa' israeliana si la premessa per la creazione di due popoli distinti e separati, che tutti e due si chiamano formalmente ebraici, ma in realta' lo sono in termini completamente diversi.

Quale e' il problema nostro su questo terreno? Questo e' il primo grosso problema che, secondo me dovremmo porci. Certo, scavo molto dentro. Ci crea grossi problemi ma non possiamo sottrarci a questa domanda. La domanda e': cosa c'entriamo noi? Noi centriamo profondamente in quanto, se noi partiamo dal presupposto di mantenerci, perche' nessuno sognerebbe di non mantenersi un rapporto stretto e in contatto permanente con Israele, solo con una porte della realta' culturale israeliana, noi rischieremmo di trovarci di fronte a una divisione del popolo ebraico e a un minare l'unita' generale del popolo ebraico. Cioe' noi rischieremmo qua a dialogare con un pezzo d'Israele e di non dialogarci con un altro pezzo di Israele.

Lo so che e' un grosso problema che non possiamo risolvere qua, ma e' un grossa problema che possa incidere su noi qua, perche' da questo punto di vista, non c'e' dubbio che la diaspora europea, e quella italiana in modo particolare, si trovano di fronte a un rapporto non simmetrico, non speculare con Israele.

Noi in modo particolare e' chiaro che siamo tributari a Israele. E' chiaro che malgrado tutto, come eravamo tributari nei confronti d'Israele quando sono arrivati i soldati delle brigate, quando sono arrivati messaggeri concrete di Israele, cosi' lo siamo rimasti ancora adesso.

E ci ne accorgiamo in tutte le circostanze, sia dal punto di vista della dottrina, siamo dal punto di vista dei nostri stessi Rabbanim che hanno frequentato, sono stati e tornano dalle yeshivot israeliane sia dal punto di vista dei nostri giovani, sia del nostro Dor Hemshech, ecc. Siamo tributari, e tutta via, siamo tributari con due difficolta'. La prima e' questo che ho appena accennato sulle quale non torno ma vi prego di considerare nel suo dramma perche' e' una difficolta' seria che incidera' sempre di piu' nel nostro avvenire. Perche' non possiamo tagliare con gli uni o tagliare con gli altri. Il pluralismo significa tante case ma mi e' piaciuto moltissimo il discorso della sanduth? E della sordanuth?. Pluralismo vuol dire portarsi sulle spalle per poter fare uno sforzo, anche violentare se stessi per mantenere rapporti con quella parte della societa' israeliana che non rispecchia il nostro modo di essere. Se intendiamo che valga la pena mantenere l'aspirazione, lo sforzo, la lotta, chiamatelo come volete, per mantenere del popolo ebraico.

Dall'altra parte, c'e' l'altro aspetto che e' stato brevissimamente accennato (omissis) si pone il problema dei nostri rapporti con il mondo cristiano, e nota che ho detto il mondo cristiano in generale e non cattolico, e della nostra necessita', anche per conoscere meglio noi stessi di rapportarci con questo mondo, in termini dialettici, in termini di insegnamenti; se ci fossi stato il tempo avrei voluto intervenire su due punti con Rav Laras, per allargare il discorso, non per polemica. Il dialogo a cui si riferiva Rav Laras stamattina che non c'e' in Israele ma c'e' nella diaspora, soprattutto europea, ma non soltanto europea, e' un altro punto di incomprensione, di differenza di esperienza fra Israele e la diaspora. Una differenza che in un Israele stato, in un Israele stabilizzato si pone questo dialogo, dove c'e', in termini completamente differenti di come si pone da noi, completamente diversi. Guardate che l'esperienza non e' facile. Io sono di quelli che ritengono che questo dialogo vada fatto per lo meno per due motivo. Per il motivo fondamentale che e' sempre meglio eliminare pregiudizi e allargare la sfera degli amici e ridurre quella dei nemici.

Questa sarebbe gia' sufficiente, pero', attenzione: chi affronta questo confronto, lo deve fare sapendo di essere pronto a dure esperienze, a grosse amarezze. Deve avere i nervi saldi perche' almeno una volta su due, anche nei migliori ambienti e' polemica dura. Io sono fresco da un episodio, da una tavola rotonda di questo genere dove un grosso cattolico e' andato via dopo che ho parlato senza darmi la mano, senza salutarmi. Questi sono cose di tutti i giorni. Non sono d'accordo, perche' e' molto piu' facile non affrontare queste persone, scusate, che affrontarli soffrendo ma sostenendo la propria posizione. Perche' ci sono due punti sui quali, qua siamo di fronte al mondo cristiano e non tutto ma una grande parte e' assente da questo dialogo e presente solo nella ricezione di pregiudizio al livello scolastico e a livello di organizzazione di pace?. Quale sono i punti piu' duri su quale dobbiamo esprimerci e dire quello che siamo? Uno: abbattere quello che non e' stato battuto che e' la teologia della sostituzione.

Se noi non togliamo dall'anima dei cattolici soprattutto, ma anche da parte dei protestanti, la concezione che il mondo cristiano ha sostituito e diventato il vero Israele e che gli ebrei sono finiti e sono dei fossili, non possiamo fare tutti i bei discorsi di tutte le occasioni, del 25 aprile, la giornata dell'ebraismo, ecc. Ma vivremo in mezzo a un mondo prevenuto.

Dobbiamo eliminare queste prevenzioni. Poi, ultima cosa. Mi pare che tutti coloro che affrontano non con una passeggiata ma come un duro tributo queste esperienza, lo fanno costretti a studiare anche se stessi. Io sono molto quando gravi dice, siamo Cohenim miei confronti di qualcuno ma io andrei ancora di al di gravi quando demarco noi e. Io dico che nel momento in cui noi dobbiamo esprimere, spiegare, presentare gli ebrei non come un fossile terminato nel 70 dell'era volgare, ma come uno grosso collettivo che ha data e che continua a dare dei grossi contributi, dei quali hanno fatto tesoro anche gli altri, siamo costretti a studiare quello che siamo.

Siamo costretti a approfondire la nostra tradizione, la nostra cultura e il nostro retaggio. E questo e' un bene, questo ci serve. Credo che questo rappresenti qualcosa di molto preciso. Ma torniamo al punto di partenza e concludiamo. Io torno al punto di partenza, chiedendo a me stesso e a voi che cosa vuole dire allora o puo' volere dire allora il rapportarsi a tutto Israele con tutte le sue componenti in maniera da portare il nostro contributo se non all'unita' del popolo ebraico almeno da non portare il nostro contributo alla disunita' del popolo ebraico. Probabilmente, quello che dobbiamo fare va al di la' delle nostre forze.

Probabilmente, una risposta completa io non ci l'ho ma credo pero' di per rispondere con un accenno che e' stato fatto non da me in un libro passato presso che inosservato ebrei moderni di Boringheri dove una a fianco all'altro, c'erano persone come Leibowitch, il sottoscritto, Friedlander, Megnani e, nella introduzione, c'era una domanda su Israele-diaspora che sembrava proprio preparato per il convegno di oggi pomeriggio. Israele e diaspora - diceva questa frase appaiono cosi' come due entita' complementari attraversati da un conflitto o quanto meno da un confronto determinato dagli input culturali. Sulla base di quale elemento strutturale si fonda o si puo' fondarsi cultura ebraica? La mia risposta dice l'autore, non e' firmato da me - e' molto semplice. La forza del dominio della lingua, in questo caso della lingua - ebraica.

Non si tratta di possedere una lingua straniera in piu', ma di tenere, e spesso per la diaspora contemporanea, di appropriarsi per la prima volta, della lingua che ha declinato toricamente l'identita' ebraica. E su base che cera stata una proposta che io spero avremo la capacita' e la forza di portare avanti, una proposta che abbiamo delineato anche in sede nazionale, che e' quello di costringerci a comunicare a strumento del comunicare, con tutti i suoi significati molteplici, con tutte le sue proprieta' semantiche. Ha ragione Gavri. Non sono quelle che sono ritradotte dalle lingue occidentali ma sono diverse e dobbiamo impararle e insegnarle. Questo sforzo, questo nuovo programma, questo programma di appropriarsi di quello che e' nostro e che e' stato sottovaluto e abbandonato potrebbe, dovrebbe, nella nostro visione, a dare vita a degli autentici hughim o chiamatele come volete di parlatori di ebraico per ogni comunita'. Che siano destinati ad allargarsi e nei quali ... (omissis)